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Grosseto, firmato in prefettura un protocollo per rafforzare la sicurezza nelle strutture sanitarie

Grosseto, firmato in prefettura un protocollo per rafforzare la sicurezza nelle strutture sanitarie

Realizzato un modello integrato per la tutela di operatori e pazienti

Il prefetto di Grosseto, Paola Berardino, e il direttore dell’Azienda Usl Toscana Sud Est, Antonio D’Urso, hanno firmato ieri, presso il palazzo del Governo, alla presenza dei vertici delle Forze di polizia, un’intesa per rafforzare la sicurezza del personale sanitario. 

Il protocollo punta ad una maggiore cooperazione tra le strutture pubbliche presenti sul territorio e le Forze dell’ordine. 

L’accordo prevede, in particolare, un potenziamento degli strumenti di videosorveglianza, teleallarme e vigilanza sui luoghi di lavoro e la formazione di medici, infermieri e tecnici in materia di prevenzione e gestione delle situazioni di conflitto.

Nello specifico, l’Azienda, si impegnerà, anche mediante il ricorso a tali strumenti, ad attuare misure di prevenzione e protezione a garanzia dei livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Le Forze dell’ordine, oltre ad assicurare l’intervento immediato in caso di episodi violenti, vigileranno le strutture sanitarie, garantendo la tutela di sanitari, pazienti e il loro diritto alle cure. 

Una particolare attenzione è rivolta all’attività di informazione e comunicazione, destinata a lavoratori e pazienti, con l’obiettivo di prevenire e gestire in sicurezza le situazioni di potenziale tensione.

Il protocollo istituisce inoltre un apposito tavolo tecnico, attivo presso la prefettura, che avrà il compito di operare un costante monitoraggio delle situazioni di rischio, e individuare le misure necessarie a contrastare gli atti di violenza, tenendo conto delle peculiarità delle diverse realtà territoriali. 

«Le aggressioni, verbali o fisiche, nei confronti degli operatori sanitari – ha dichiarato il prefetto – sono gesti inqualificabili che offendono il lavoro di chi è in prima linea per garantire il diritto alla salute. Con il protocollo si inaugura un percorso sinergico che ha come obiettivo quello di garantire la sicurezza degli operatori, rafforzando così le condizioni indispensabili affinché il servizio pubblico sanitario, tratto distintivo di una civiltà democratica, possa svolgersi nel modo più efficiente e sereno a tutela della salute di noi tutti».

All’incontro di ieri hanno preso parte i sindaci dei comuni di Castel del Piano, Follonica, Massa Marittima e i rappresentanti della provincia e dei comuni di Grosseto, Orbetello e Pitigliano.

Fonte: Ministero dell’Interno

Istat: il mercato del lavoro in Italia a marzo 2023

A newspaper on a wooden desk - Job Market

Istat: il mercato del lavoro in Italia a marzo 2023

A marzo 2023 la crescita dell’occupazione rispetto al mese precedente (+22 mila) porta gli occupati a 23milioni 349mila.
Il numero è superiore di 297mila unità rispetto a quello di marzo 2022, a seguito dell’aumento dei dipendenti permanenti e degli autonomi e a fronte di una diminuzione dei dipendenti a termine.
Su base mensile, il tasso di occupazione e di inattività sono stabili – 60,9% e 33,8% rispettivamente – mentre quello di disoccupazione cala al 7,8%.

Scarica la nota ISTAT

Fonte: ISTAT

Confindustria: audizione alla Camera dei Deputati sul salario minimo

Confindustria: audizione alla Camera dei Deputati sul salario minimo

Francesca Mariotti, Direttore Generale Confindustria, è intervenuta in audizione presso la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati sulle proposte di legge in materia di giusta retribuzione e salario minimo.

L’introduzione di un salario minimo legale nel nostro Paese è certamente uno dei temi più significativi del dibattito sul mercato del lavoro degli ultimi anni, su cui sono senz’altro utili occasioni di confronto.

La regolazione dei minimi salariali costituisce un meccanismo fondamentale nel funzionamento del mercato del lavoro. Questa funzione è storicamente svolta, in Italia, dai contratti collettivi nazionali di categoria. La capacità dei contratti collettivi di regolare la generalità dei rapporti di lavoro relativi è andata progressivamente diminuendo.

Specie con la crisi economica, si sono diffuse, in alcuni settori, percentuali non trascurabili di lavoratori con un salario al di sotto di quello stabilito dai contratti firmati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Per questo l’esigenza di una discussione sull’introduzione del salario minimo è comprensibile e non ci vede contrari pregiudizialmente.

Tuttavia, sebbene l’introduzione di un salario minimo legale, in astratto, potrebbe – a ben determinate

condizioni – contribuire a ridurre l’area delle situazioni anomale ora richiamate, resta che, a ben vedere, il vero problema del rispetto di un salario minimo adeguato prescinde dalla fonte che ne determina la misura.

In altre parole, il problema vero, almeno nel nostro Paese, sembra essere piuttosto quello degli strumenti volti a garantire l’effettivo rispetto del livello retributivo minimo stesso, piuttosto che quello della fonte (legge o contratto collettivo), che determina la misura della retribuzione minima.

In questo senso, l’introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe, di per sé, il problema di adeguare i salari più bassi.

Questo risultato, esattamente come oggi accade per i livelli salariali definiti dalla contrattazione collettiva, richiede invece uno sforzo maggiore per il rispetto delle regole.

Anzitutto attraverso il potenziamento dell’attività ispettiva che rappresenta il primo presidio del rispetto delle regole del lavoro, anche per quanto riguarda i livelli retributivi minimi.

Si pone anche una questione che attiene alla selezione della qualità della contrattazione collettiva che, se affrontato e risolto correttamente, aiuterebbe senz’altro, a nostro avviso, a contribuire a risolvere la questione del salario minimo adeguato.

Resta, comunque, centrale il tema del rapporto tra l’eventuale introduzione di un salario minimo legale e l’attuale sistema della contrattazione collettiva esistente.

È evidente infatti che, nel nostro Paese, la mancata adozione di un salario minimo legale è da mettere in correlazione proprio all’altissima diffusione della contrattazione collettiva che, storicamente, si è fatta carico di individuare i livelli salariali minimi per ciascuna categoria di lavoratori.

Inoltre, va anche ricordato che la Direttiva europea relativa a salari minimi adeguati afferma espressamente, che i salari medi negli Stati membri ove la regolazione del salario è affidata esclusivamente alla contrattazione collettiva “sono tra i più alti nell’Unione europea”.

E, sempre con riferimento alla direttiva, va ricordato che il nostro Paese è considerato, complessivamente, già in linea con il tasso di copertura della contrattazione collettiva.

Pertanto, a ben guardare, si può sostenere che, in qualche misura, un salario minimo di riferimento, nel nostro ordinamento, è già vigente.

Dunque, vi è la conferma che nel nostro ordinamento il vero problema, è semmai quello di definire correttamente il rapporto tra legge e contrattazione.

Un salario minimo “universale”, che non tenesse specificamente conto del sistema della contrattazione collettiva vigente potrebbe ingenerare nelle imprese la tentazione di “sciogliersi” dal complesso di obblighi che derivano dal rispetto dei contratti collettivi, a favore di una regolamentazione unilaterale del rapporto di lavoro che troverebbe, però, nel rispetto del salario minimo, la sua tutela fondamentale.  Dobbiamo evitare in Italia il c.d. fenomeno della “fuga” dal contratto collettivo che si sta registrando, già da tempo in atto in vari paesi europei, che hanno adottato il sistema del salario minimo legale, pur in presenza di una consolidata tradizione di contrattazione collettiva.

È opportuno, infatti, ricordare che il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei CCNL è ben più esteso del mero trattamento economico minimo.

Inoltre, è appena il caso di ricordare che la flessibilità e adattabilità che assicura l’intervento dell’autonomia negoziale collettiva, seppur connotata anch’essa da alcuni limiti, è certamente più confacente ed utile per interpretare, nel modo più corretto, le differenze tra settori economici e tra distinte mansioni, rispetto alla “rigidità” di una disciplina legislativa.

Registriamo, pertanto, con favore che, in linea di massima, tutte le proposte di legge in esame finiscono per optare, in qualche modo, per un “demando” alla contrattazione collettiva.

Ma le soluzioni tecniche che, poi, seguono a questa positiva impostazione di fondo meritano di essere attentamente valutate perché generano una serie di questioni di grande rilievo che, per come declinate e risolte nei vari progetti di legge in esame, suscitano perplessità e riserve di varia natura.

Riteniamo necessario distinguere tra l’applicazione dei minimi retributivi, così come previsti dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nella categoria, ed il trattamento economico complessivo, alla cui determinazione concorrono, invece, tutte le voci retributive disciplinate dal contratto.

Mantenere ferma questa distinzione è centrale per impostare correttamente la questione del salario minimo. Ed infatti “confondere” il trattamento minimo con il trattamento economico complessivo, significa introdurre un elemento di forte distorsione.

Ed infatti fissare per legge un valore economico finisce per alterare il libero ed autonomo confronto negoziale tra le parti contraenti, inserendo un elemento distorsivo che, non a caso, la direttiva europea non prevede in alcun modo, perché distingue nettamente (e coerentemente) tra salario minimo fissato per legge e salario individuato dalla contrattazione collettiva, non prevedendo, a ragione, alcun tipo di “commistione” tra queste due distinte fonti di regolazione del salario.

Semmai il vero problema è quello di individuare criteri obiettivi che valgano a selezionare la contrattazione collettiva posta in essere da qualificati rappresentanti degli interessi collettivi, rispetto all’ormai incontenibile numero di contratti collettivi sottoscritti da soggetti poco attendibili e scarsamente rappresentativi.

Tutti i progetti di legge in esame utilizzano, sotto più profili, la tecnica del rinvio al “contratto collettivo nazionale del settore stipulato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Con tutta evidenza ciò comporta la soluzione dell’oramai annosa questione della misurazione della rappresentanza, sia delle organizzazioni sindacali dei lavoratori che delle organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro.

Per affidare efficacemente la determinazione del salario minimo alla contrattazione collettiva è, infatti, indispensabile individuare dei criteri che selezionino, in modo oggettivo e verificabile, il “contratto di riferimento”, per ogni settore, il che comporta la necessità di individuare le organizzazioni di rappresentanza e dei datori di lavoro e dei lavoratori che siano effettivamente rappresentative.

Non v’è dubbio, infatti, che occorre porre un serio argine al dilagante fenomeno dei c.d. “contratti pirata” (ossia dei contratti sottoscritti da organizzazioni del tutto prive o scarsamente titolari di un effettivo potere rappresentativo) che costituiscono senz’altro un ostacolo alla individuazione di una retribuzione oraria minima adeguata in tutti i settori.

In altre parole, nella nostra visione, la questione della determinazione del salario minimo per via della contrattazione collettiva e la questione della misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali e datoriali costituiscono un unicum inscindibile.

Quanto alla misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori un’eventuale disposizione di legge ben potrebbe fare riferimento agli accordi interconfederali sottoscritti in materia in tutti i maggiori settori produttivi ma, in primis, da Confindustria.

Per quanto attiene, invece, alla misurazione della rappresentanza datoriale occorrerebbe individuare altrettanti parametri oggettivi e questo si potrebbe attuare o con un accordo tra le associazioni datoriali o per legge.

Sin qui, però, i tentativi promossi da Confindustria, anche in sede CNEL, di giungere ad una condivisione di criteri per la misurazione della rappresentanza datoriale non hanno dato alcun esito, per l’estrema distanza delle opinioni in merito tra le stesse organizzazioni datoriali.

Prendere in considerazione il numero di imprese associate, in relazione al numero complessivo delle imprese, costituisce un parametro fortemente distorsivo e incongruo.

Viceversa, a nostro avviso, il primo criterio che andrebbe utilizzato, ma che appare il più obiettivo in termini di “effettività” della rappresentanza, è quello di verificare il numero di rapporti di lavoro regolati, nel settore, da un determinato contratto collettivo sottoscritto da una determinata rappresentanza datoriale.

Prima di determinare qualsiasi criterio di misurazione, è indispensabile definire il perimetro, campo di applicazione di quel criterio, ossia, in parole povere, che cosa si vuole misurare.

La soluzione della questione andrebbe affidata ad una autoregolamentazione delle parti ossia ad un grande accordo interconfederale che coinvolga rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori finalizzato a definire convenzionalmente (e a razionalizzare) i campi di applicazione dei contratti nei vari settori.

Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, nel c.d. “Patto per la fabbrica” del 9 marzo 2018, avevano già individuato una soluzione a questa questione.

Dunque, una volta definito il “perimetro”, andrebbe misurato, all’interno di quello, l’effettivo “peso” della rappresentanza e delle organizzazioni sindacali e delle organizzazioni datoriali.

Si riscontra che pur non essendo associate, moltissime imprese scelgono liberamente di avvalersi del contratto nazionale che una determinata associazione datoriale ha sottoscritto: il che significa che quel contratto, più di altri, interpreta e soddisfa gli interessi di quelle imprese nel risolvere la questione della regolamentazione dei rapporti di lavoro.

Si realizza, in tal modo, inconfutabilmente, una rappresentanza “di fatto”, derivante da una libera scelta dell’impresa.

Se quello stesso contratto risultasse essere sottoscritto anche dalle organizzazioni di rappresentanza di lavoratori maggiormente rappresentative, è del tutto evidente che i trattamenti minimi fissati in quel contratto dovrebbero costituire il minimo di riferimento per individuare il salario minimo orario dovuto in quel settore produttivo, a prescindere dalla natura dell’impresa, se industriale, artigiana, cooperativa o altro. Il salario minimo dei contratti collettivi di riferimento dovrebbe diventare quindi il salario minimo legale per ogni settore.

Ma se le organizzazioni datoriali non giungessero ad un accordo sui criteri di selezione del loro “grado” di rappresentanza, allora, sul punto, potrebbe essere necessario l’intervento del legislatore.

E’ necessario quindi un disegno complessivo, Confindustria, il 9 marzo del 2018, ha sottoscritto con Cgil, Cisl, Uil il già citato “Patto per la fabbrica” dove si propone che il contratto collettivo nazionale di categoria dovrà individuare il trattamento economico minimo (TEM) e il trattamento economico complessivo (TEC).

L’applicazione del TEM soddisfa, con ogni evidenza, l’esigenza evidenziata dalla Direttiva, cioè l’esigenza di un salario minino.

Il trattamento economico complessivo (TEC) sarà poi costituito dal trattamento economico minimo (TEM), e da tutti quei trattamenti economici – anche le eventuali forme di welfare – che il contratto collettivo nazionale di categoria qualificherà come “comuni a tutti i lavoratori del settore”, a prescindere dal livello di contrattazione a cui il medesimo contratto collettivo nazionale di categoria ne affiderà la disciplina.

Riteniamo che questo sistema “complessivo”, concordato con le Organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nei nostri settori (ma che hanno, peraltro, condiviso l’opportunità di intraprendere un procedimento di verifica obiettivo della loro “forza rappresentativa”, tuttora in corso, in attuazione dell’accordo interconfederale del 2014), costituisca il quadro regolatorio più efficace per garantire un salario minimo orario adeguato.

Fonte: Condindustria

Scarica il testo della memoria di Confindustria

Formazione Cersa b.u. Icmq – Sistema di gestione per la parità di genere ai sensi della UNI PdR125/2022 – 24 maggio 2023

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Sistema di gestione per la parità di genere ai sensi della UNI PdR125/2022

24 maggio 2023

9:00-18:00

PRESENTAZIONE

Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) definisce la parità di genere in Italia come una delle priorità principali; favorire le Pari opportunità e ridurre il gap per raggiungere la parità di genere nelle aziende è possibile e necessario per una società più sostenibile. Tra i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030, il Goal 5 si prefissa l’obiettivo di raggiungere l’uguaglianza di genere. Per la prima volta l’Italia si è impegnata nella definizione della Strategia Nazionale per promuovere le Pari Opportunità e la Parità di Genere con la quale ha previsto l’introduzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere. La UNI/PdR 125:2022 nasce quindi come prassi di riferimento per fornire le linee guida sul Sistema di Gestione per la parità di genere; prevede la strutturazione ed adozione di un insieme di indicatori prestazionali (KPI)inerenti le politiche di parità di genere nelle organizzazioni. Obiettivo è quello di garantire il conseguimento e il mantenimento di un ambiente lavorativo più inclusivo e meno discriminatorio. Grazie alla certificazione le aziende potranno inoltre accedere a sgravi fiscali e premialità nella partecipazione a bandi di finanziamento italiani ed europei.

OBIETTIVI

L’obiettivo del corso è quello di illustrare la Certificazione della Parità di Genere, recentemente introdotta con la Prassi di Riferimento UNI/PdR 125, al fine di sviluppare e monitorare un Sistema di Gestione della Parità di Genere all’interno delle Organizzazioni. Il corso analizzerà la struttura della UNI/PdR 125: le politiche di Parità di Genere, la pianificazione, l’attuazione e il monitoraggio di un Sistema di Gestione inclusivo, gli indicatori prestazionali (KPI) adattabili a tutte le tipologie di aziende, per misurare, rendicontare, valutare e migliorare i dati relativi al genere nelle Organizzazioni.

DESTINATARI

Il corso è rivolto a manager, imprenditori e professionisti di qualsiasi Organizzazione, del settore privato, pubblico o senza scopo di lucro, indipendentemente dalle dimensioni e dalla natura dell’attività, ai Responsabili delle Risorse Umane, ai Responsabili dei Sistemi di Gestione, ai Responsabili della Formazione, ai Consulenti, agli Imprenditori e agli Auditor coinvolti nei temi della Diversity & Inclusion.

STRUTTURA DEL CORSO

Il corso la durata di 8 ore dalle 9:00 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 18:00 in modalità FAD.

Saranno riconosciuti 8 crediti formativi validi per il mantenimento della certificazione UNI 10459 Professionisti della Security, al superamento del test di valutazione.

Scarica il programma e la scheda di iscrizione