Vigilanza privata 2021: un settore in movimento

Intervista a Maria Cristina Urbano, presidente di Assiv, una delle associazioni più rappresentative del settore della vigilanza privata. Uno sguardo a tutto tondo sulle sfide che la categoria deve affrontare: dai crescenti compiti di sicurezza pubblica alla formazione, dai rapporti non sempre facili con i ministeri ai mutamenti della società.

di Davide Mantovan – Armi e Tiro

Il ruolo della vigilanza privata impatta ormai indiscutibilmen­te su importanti profili di sicurezza anche pubblica, in un’ottica di compartecipazione pubblico/privato nell’esecuzione di incarichi sempre più a vocazione strategica.

Un impianto normativo che si regge su una miriade di fonti eterogenee e una direzione politica non sempre chiara e univoca generano, però, problema­tiche profonde che impattano su circa 50 mila posti di lavoro in Italia e su un settore che conta circa 3 miliardi di euro l’anno.

In un momento storico in cui l’unica certezza è il bisogno crescen­te di sicurezza, recepiamo le aspettative del mondo della vigi­lanza dalla voce di Maria Cristina Urbano, presidente di Assiv, Associazione italiana vigilanza e servizi fiduciari (www.assiv.it), che rappresenta oltre 100 aziende per un totale di circa 25.000 opera­tori, in prima linea nella tutela della categoria.

Crescente devoluzione di incarichi


Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a una sempre crescente devoluzione di incarichi operativi dalla pubblica sicurezza alla vigilanza privata che, oltre ad aver accresciuto notevolmente le sue attribuzioni tipiche nella sicurezza privata, ha consolidato il suo ruolo di partner esclusivo nella gestione di numerosi in­carichi di sicurezza a vocazione pubblica, nelle forme della “sicu­rezza sussidiaria” e della “sicurezza partecipata”. Proporzional­mente, è stato chiesto di fornire sempre più garanzie sulla quali­tà dei servizi, fino alla certificazione di qualità degli istituti.

La vigilanza privata è, oggi, un elemento fondamentale per la sicurezza in molti contesti pubblici, dagli aeroporti alle stazioni e così via.

Gli istituti di vigilanza, come hanno affrontato la sfida della cer­tificazione prevista dal decreto ministeriale 115/2014?

«Il Dm 215/2014 è stato introdotto con la dichiarata finalità di innalzare, uniformare e garantire l’effettività degli standard di qualità degli istituti, prevedendone il percorso per la certifica­zione, che altro non è se non la verifica e l’attestazione di essersi adeguati in tutto e per tutto a quanto la normativa ha progressi­vamente imposto.

Poiché le aziende della vigilanza spesso dif­feriscono tra loro per dimensioni, modello di gestione e tipologia dei servizi erogati, a ciascuno è stato richiesto di collocarsi in una delle “categorie” individuate dal DM 269110, in funzione di quanto è popolato il territorio in cui si opera, quali servizi si vo­gliono offrire, quanto personale si impiega e così via, e fornire quindi le corrispondenti garanzie.

Al fianco di aziende che han­no sostenuto tutti gli sforzi di compliance, investendo e pianifi­cando con precisione le proprie attività, esiste però ancora un vasto bacino di imprese che a oggi, incredibilmente, risultano non certificate.

Il Ministero dell’Interno, dal canto suo, dietro la prolungata pressione proprio dei principali attori del comparto, tra cui Assiv, si è limitato solo nel 2017 al censimento dei 382 Istituti che a quella data si sono adeguati e certificati (l’elenco degli istituti certificati è disponibile su poliziadistato.it/statics/49/ elenco-istituti-certificati.pdf, nda).

Dunque, a dieci anni dall’e­manazione del Dm 269/10 e a sette dal Dm 115/2014, in Italia ope­rano ancora istituti privi della certificazione, incredibilmente senza alcuna sanzione e in definitiva restando sul mercato senza aver dimostrato di possedere i requisiti essenziali per farlo».

Quindi il Ministero, che rilascia le licenze e vigila su queste, si è di fatto limitato a “orientare il mercato” verso soggetti “sani” e certificati nonostante i suoi ampi poteri?

«Il problema è ben più profondo. Il processo di certificazione è dinamico per sua natura e non può essere ritenuto qualcosa di cristallizzato, richiede una consultazione continua tra l’Autorità di pubblica sicurezza che disciplina il settore e gli operatori che lo popolano, tant’è che la trasformazione del mondo della sicurezza privata avvenuta negli ultimi quindici anni è il risultato proprio di un dialogo costante tra le parti, attraverso le associazioni di categoria, favorito dalla “mediazione” di Accredia, l’en­te unico nazionale di accreditamento designato dal governo italiano, in applicazione del Regolamento europeo 765/2008.

Da qualche anno, però, il Ministero ha inteso interrompere bruscamente, e a mio avviso immotivatamente, ogni dialogo con i rappresentanti della parte privata, ormai indubbiamen­te anello importante del sistema-difesa del Paese eppure con­siderata, dopo questo dietro-front, come una semplice desti­nataria dei provvedimenti dell’Autorità  pubblica.

Inconcepi­bile e inspiegabile, anche a fronte del fatto che la stessa Autorità  pare non disporre di risorse che le consentano di gestire al meglio ogni aspetto: la vicenda della certificazione è esemplare in questo senso».

Maria Cristina Urbano, presidente di Assiv (Associazione italiana vigilanza e servizi fiduciari), che rappresenta oltre 100 aziende del settore per oltre 25 mila operatori.

A dire il vero, qualche segno di “scollamento” dalla direzione intrapresa nel decennio precedente era trapelato quando esplo­se la vicenda della Gpg-lavoratore autonomo …

«La vicenda prese le mosse da una pronuncia del Tar Emilia Ro­magna, la n. 118/2018, che in spregio a qualsiasi interpretazione consolidata della normativa, ha affermato che è possibile rila­sciare l’autorizzazione a svolgere l’attività di guardia giurata come forma di lavoro autonomo. Il dipartimento della pubblica sicurezza ha dunque sottoposto la questione al Consiglio di Sta­to, il quale ha reso il parere consultivo n. 2.531 del 2019, confer­mando l’orientamento espresso dal Tar Emilia Romagna e dichia­rando la sentenza valida erga omnes.

Così facendo ha di fatto annullato l’art. 6, comma 2 del Dm 269/2010, che prevedeva che “Il riconoscimento della nomina a guardia giurata è subordina­to all’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con il titola­re della licenza prevista dagli artt. 133 o 134 del Testo unico del­le leggi di pubblica sicurezza”.

A chiusura del cerchio, su tale parere il Ministero ha quindi emanato il 17 ottobre 2019 una pro­pria circolare con la quale ha recepito integralmente l’interpre­tazione resa dal Consiglio di Stato, dettando addirittura le regole le affinché la singola guardia potesse ottenere il decreto di no­mina a Gpg ed esercitare la professione in forma autonoma e vanificando, nello sconcerto generale, tutti gli sforzi condotti sino a quel momento per la standardizzazione della qualità dei servizi di sicurezza privata. La soluzione, però, non era accetta­bile né nei contenuti né nella forma.

La direzione da imprimere al mondo della sicurezza privata deve infatti essere espressione di una visione politica, come tale da adottarsi nelle forme di una legge statale e non di un atto amministrativo, da sottoporre all’in­terpretazione della giustizia amministrativa! È così che, anche grazie all’intervento delle associazioni di categoria come Assiv, Univ, Anivp e grazie anche alla indubbia sensibilità di alcune parti politiche, al Dl 14 agosto 2020 n. 104, “Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia” è stato aggiunto in sede di conversione l’art 37-quinquies che, questa volta con forza di leg­ge dello Stato, ha reintrodotto la necessità “dell’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con un istituto di vigilanza auto­rizzato ai sensi dell’articolo 134 ovvero con uno dei soggetti che è legittimato a richiedere l’approvazione della nomina a guardia giurata ai sensi dell’articolo 133”. Incidente chiuso, ma quanta fatica … ».

La vigilanza privata deve operare secondo standard qualitativi sempre più elevati, come peraltro previsto dai recenti decreti ministeriali sulla materia.

Parato un colpo si affronta il successivo. Mi riferisco al fenome­no del cashback e in generale alle progressive stringenti limita­zioni alla circolazione del contante. Quali sono gli impatti sul mondo di chi il contante lo trasporta e lo tratta quotidianamente?

“Gli impatti negativi di queste misure sul settore del trasporto e custodia valori sono pesantissimi, soprattutto in prospettiva, e tra l’altro non paiono minimamente giustificati dalle finalità di­chiarate al momento della loro adozione.

Lo stesso Yves Mersch, membro di recente uscita dal Consiglio direttivo Bce, a suo tem­po indirizzò una lettera al ministro dell’Economia Roberto Gual­tieri, nella quale si afferma che l’iniziativa italiana è “spropor­zionata alla luce del potenziale effetto negativo che tale mecca­nismo potrebbe avere sul sistema di pagamento in contanti e in quanto compromette l’obiettivo di un approccio neutrale nei confronti dei vari mezzi di pagamento disponibili”.

Quanto ai presunti benefici, partiamo dal presupposto che non è stato in alcun modo dimostrato che la limitazione all’uso del contante generi un risultato significativo nella lotta all’evasione fiscale. Il meccanismo del cashback strizza l’occhio ai consumatori, ma non tiene nella debita considerazione “che la possibilità di pa­gare in contanti rimane particolarmente importante per taluni gruppi sociali, che, per varie legittime ragioni, preferiscono uti­lizzare il contante piuttosto che altri strumenti di pagamento. Il contante è altresì generalmente apprezzato come strumento di pagamento in quanto, quale corso legale, è ampiamente accet­tato, è rapido e agevola il controllo sulla spesa di chi paga, i pagamenti in contanti agevolano l’inclusione dell’intera popo­lazione nell’economia consentendo a qualsiasi soggetto di rego­lare in contanti qualsiasi tipo di operazione finanziaria”.

Inoltre, vale la pena di considerare come l’euro sia la moneta unica au­torizzata a livello europeo, mentre le transazioni elettroniche fanno capo integralmente a soggetti privati. Quanto, invece, all’impatto dannoso, è possibile affermare con assoluta certezza che lo sconsiderato uso di misure restrittive all’utilizzo del con­tante ha provocato, e provocherà, una profonda crisi del settore trasporto e trattamento denaro, uno dei settori che hanno richie­sto i più forti investimenti di capitali e che presenta maggiori costi, alcuni dei quali di recente impennata. Basti pensare ai costi assicurativi, servizi storicamente acquistati sul mercato bri­tannico e che ora, dopo la brexit, hanno manifestato incrementi di costo fino al 40 per cento … dunque da un lato maggiori costi, dall’altro una contrazione del volume di affari che si prevede come tutt’altro che transitoria. Il settore dovrà ristrutturarsi, anche in termini occupazionali.

Stiamo sacrificando interi settori eco­nomici in favore di una misura che non potrà che essere transi­toria e che non è stata correttamente valutata nel rapporto costi­-benefici. Insomma, una misura furbetta che deprime un settore già in crisi e certo non aiuta a educare alla legalità fiscale».

La riduzione della circolazione del contante sta avendo un impatto molto forte sul comparto della sicurezza
privata, che si occupa del suo trasporto.

Vigilanza e Servizi Fiduciari

Dall’introduzione del Dm 269/2010 la giurisprudenza, le Linee Guida dell’Anac e alcune circolari del ministero dell’Interno hanno fatto chiarezza sulle differenze tra vigilanza decretata e servizi fiduciari e sugli ambiti di esclusiva competenza riserva­ti alla prima. Tuttavia, si assiste quotidianamente a “invasioni di campo”.

“Il fatto è che l’erosione di competenza esclusiva della vigilanza è operata prima di tutti dalla stessa pubblica amministrazione, che risulta aver bandito gare di appalto senza rispettare la netta distinzione tra personale armato e servizi fiduciari o, peggio, ad­dirittura facendo appello alla categoria del personale non arma­to su settori riservati per norma alla vigilanza.

Voglio precisare che non si tratta di voler conservare senza motivo un ambito di lavoro a proprio esclusivo vantaggio: teniamo presente che il personale non decretato Gpg non ha il potere, per esempio, di trattare eventuali segnali di allarme così come di svolgere tutte le funzioni che costituiscono vera e propria “sicurezza attiva”.

Si tratta, dunque, di avere o meno determinati margini di operati­vità ed essere formati per affrontare quanto può capitare, in ot­tica di protezione del patrimonio. Occorre comprendere le speci­ficità di ciascuna figura professionale e destinarla ai compiti suoi propri.

L’antitaccheggio rappresenta, per esempio, un segmento di mercato che, benché disciplinato con discreta chiarezza, vede la normativa restare lettera morta. È evidente come un professio­nista della sicurezza debitamente formato comporti un costo maggiore rispetto a un soggetto meno specializzato. Questo, pe­rò, non può giustificare una sistematica disapplicazione della norma nell’indifferenza più totale. Delle due l’una: o il legislato­re ritiene che il servizio antitaccheggio possa essere disbrigato da personale diverso dalla Gpg, allora andrà normata a tutti gli effetti una precisa categoria professionale, oppure questo rap­presenta un altro caso in cui occorrerà sincerarsi che la norma oggi esistente venga rispettata”.

In proposito di ambiti di operatività della vigilanza privata, da tempo si invoca la necessità (e l’opportunità) di svincolare la Gpg dalla sola tutela del patrimonio, per vederla applicare anche alla tutela della persona.

«Nel corso del 2020, nell’ambito del confronto avviato con il Par­lamento, sono state presentate su nostra istanza precise proposte di legge suJJ’impiego delle guardie giurate all’estero, fatte proprie sia dalle forze di maggioranza sia di opposizione, che sono state incardinate e calendarizzate in commissione Affari costituziona­li della Camera dei deputati. L’obiettivo è quello di ottenere una cornice normativa che consenta alle nostre aziende e al nostro personale, altamente qualificato, di operare all’estero per la tu­tela degli asset italiani, garantendo al contempo importanti vantaggi economici e strategici all’intero sistema-Paese.

Ha senso che un asset strategico nazionale sia difeso da personale pro­veniente dall’estero? Allo stesso modo, occorre tornare ad affron­tare il tema della close protection, sul quale le istituzioni restano fredde ma che, ne sono convinta, potrà essere oggetto di nuove riflessioni.

Le oggettive condizioni di mercato e la carenza di ri­sorse umane e finanziare da parte delle istituzioni pubbliche, impongono di riconsiderare la materia senza pregiudizi, guar­dando anche alle soluzioni adottate dai nostri principali partner europei. Un comparto come il nostro, al quale vengono richiesti livelli di qualificazione e di professionalità sempre crescenti, chiamato già ad operare in molteplici contesti dove (nella sostan­za se non anche nella forma) si tutela l’incolumità delle persone, può e deve essere messo nelle condizioni di esplicare al massimo le proprie potenzialità, contrastando tra l’altro anche fenomeni di illegalità e provvisorietà, che hanno potuto proliferare in un quadro normativo che, sulla specifica questione, non è più in grado di rispondere alla realtà della nostra società e della nostra economia.

Sul punto abbiamo intenzione di avviare un dialogo con le istituzioni europee e con i comparti della sicurezza priva­ta negli altri Stati dell’Unione Europea. Ecco, quindi, un ulterio­re ambizioso obiettivo: avviare un dibattito politico sulla close protection, nonché una interlocuzione sul tema della sicurezza privata con Bruxelles».

!:inerzia dei ministeri rende problematico gestire servizi di sorveglianza atipici rispetto al passato, come quello anti-pirateria sulle navi mercantili.

Dal 2012 le Gpg italiane possono svolgere servizio anti-pira­teria a bordo delle navi. Sembra che anche in questo ambito sia stato tracciato un solco iniziale sul quale, però, la pubbli­ca amministrazione non è più tornata. Di quale salute gode questa specialità?

«Dal 2012 le Gpg italiane hanno svolto il servizio anti-pirateria a bordo dei mercantili, a ciò autorizzate “in via temporanea” nell’attesa dell’organizzazione di appositi corsi teorico-pratici abilitativi da parte del Ministero e purché “abbiano partecipato per un periodo di almeno sei mesi, quali appartenenti alle Forze armate, alle missioni internazionali in incarichi operativi”.

Si diceva in via temporanea poiché i criteri appena riportati erano stati individuati in attesa dell’attivazione dei corsi da parte del Viminale.

I corsi previsti, però, a quasi dieci anni dalla norma non sono stati attivati da parte del Ministero e la proroga del regime transitorio inizialmente previsto è scaduta lo scorso 30 giugno. Assiv e le altre associazioni di categoria interessate han­no immediatamente interpellato il Ministero che, però, si è limi­tato a rispondere che “le guardie giurate che non hanno provve­duto ad acquisire la citata abilitazione a svolgere i servizi anti­pirateria non possono essere autorizzate ad esercitare tale atti­vità”.

Insomma, dopo 8 anni di proroghe e a fronte della manca­ta attivazione dei corsi, l’inerzia del Ministero ha causato il fermo di una attività di estrema importanza e delicatezza per la tutela del nostro naviglio e del personale su questo imbarcato, finaliz­zata al contrasto di attività criminose che spesso si caratterizza­no per una significativa gravità.

Fortunatamente, a seguito del­le pressanti richieste di Assiv e di Confitarma, il legislatore ha provveduto a inserire nel Decreto legge “agosto” la proroga per consentire fino al giugno 2021 il prosieguo delle attività, in con­siderazione del fatto che l’emergenza pandemica ha reso impossibile l’attivazione dei corsi di formazione per la qualifica obbli­gatoria delle Gpg da destinare a questo delicato servizio».

Insomma, dal 2010 si attende di conoscere la durata dei corsi di formazione continua, dal 2014 che la certificazione prevista per gli Istituti venga fatta rispettare, dal 2012 l’istituzione dei corsi anti-pirateria … sembra che il Ministero raccolga in sé funzioni che, però, non riesce a svolgere appieno. Da più parti si è parla­to del modello britannico, che ha istituito un’unica authority dedicata esclusivamente al comparto della sicurezza privata, la Security industry authority, che si occupa di normare ed erogare formazione, rilasciare licenze e certificare. Un modello simile potrebbe fare anche al caso nostro?

“A livello istituzionale ASSIV si è posta quale imprescindibile interlocutore per le tematiche connesse alla sicurezza, certamen­te nei confronti del Governo ma anche, e in misura sempre più efficace, con il Parlamento e tutte le componenti politiche che lo compongono, riuscendo a vincere barriere ideologiche e cultu­rali nei confronti della sicurezza privata, che in passato hanno impedito un confronto aperto nel merito delle questioni.

È un risultato fondamentale, propedeutico a futuri fecondi sviluppi anche normativi per il settore, che è stato possibile conseguire grazie alla scelta da parte dell’Associazione di sostenere istanze solide, ben argomentate, capaci di rispondere al contempo ai bisogni delle nostre imprese e all’interesse dello Stato e della collettività nazionale. Tuttavia, mentre alla Camera e al Senato ci viene riconosciuto l’impegno a sostenere istanze virtuose, fi­nalizzate a innalzare il livello professionale e di immagine del comparto, al ministero dell’Interno qualcosa non ha funzionato.

Tanto è vero che a fronte della nostra pressante richiesta per l’apertura di un effettivo e costante canale di comunicazione con l’amministrazione controllante, riscontriamo con sconforto che tale canale ha ormai da anni caratteristiche di unilateralità, che si estrinsecano in direttive e circolari che impattano fortemente sul settore della vigilanza privata, senza la minima preventiva concertazione nel merito delle misure adottate.

Concertazione, è bene ribadirlo, il cui scopo ultimo è quello di fornire all’ammi­nistrazione le informazioni e gli elementi concreti necessari a definire tali misure, la cui adozione spetta certamente in ultima istanza al Ministero, ma che siano capaci di rispondere in ma­niera efficace alle esigenze per le quali vengono adottate.

La scelta del legislatore, nel momento obbligato della rifondazione normativa del comparto (era il 2008), è stata quella di mantenere la vigilanza privata all’interno del sistema sicurezza Paese, quin­di fra le attività per cui necessita la licenza di polizia, sotto la stretta vigilanza del ministero dell’Interno e dei suoi uffici terri­toriali, quindi credo che la devoluzione a una Authority sia fuo­ri questione.

Nondimeno la scelta fatta non può prescindere da una interlocuzione costante, dato che il settore, almeno per ciò che riguarda la vigilanza attiva, è da una parte segnato da re­gole stringenti e controlli continui, dall’altra esprime una im­prenditoria ormai pienamente inserita nel libero mercato.

La mancanza di confronto genera molti problemi, incertezze e in definitiva un danno sia per chi intraprende in questo ambito, sia per la pubblica amministrazione che rinuncia a sviluppare una armoniosa integrazione fra risorse pubbliche e private per innal­zare il livello di sicurezza del Paese”.

Un altro tema “caldo” è la possibilità  da parte degli operatori della sorveglianza privata, di occuparsi della tutela della persona e non solo del patrimonio.