Stato ed enti locali devono tornare a considerare la gara pubblica come la regola, non l’eccezione. Le scorciatoie devono restare tali: strumenti eccezionali, motivati e sotto controllo. Meno ambiguità, soglie più basse per gli affidamenti diretti, regole più semplici ma anche più stringenti. E soprattutto controlli veri
Il Codice dei contratti pubblici è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui lo Stato e le pubbliche amministrazioni gestiscono l’affidamento di lavori, servizi e forniture. È la “regia” che stabilisce come spendere una parte importante delle risorse pubbliche, con effetti diretti sull’efficienza dell’amministrazione, sulla qualità dei servizi e sull’uso corretto del denaro pubblico.
Nonostante le recenti modifiche, però, questo strumento continua a presentarsi come un impianto normativo complesso, frammentato e spesso aggirabile. E proprio qui sta il problema: ciò che dovrebbe essere l’eccezione – ovvero il ricorso a procedure non ordinarie – rischia sempre più di diventare la norma.
Il punto più critico riguarda l’indebolimento del principio della gara pubblica, che dovrebbe essere il cuore del sistema. La concorrenza tra operatori economici, garantita da procedure aperte e trasparenti, è infatti l’unico modo per assicurare scelte imparziali, servizi di qualità e un uso efficiente delle risorse. Eppure, negli anni, sono aumentate a dismisura le deroghe: affidamenti diretti, procedure negoziate senza bando e altri strumenti “semplificati” che, da soluzioni straordinarie, stanno diventando prassi quotidiana.
Lo denunciamo da tempo come Assiv, ma stavolta a lanciare un segnale forte è stato il presidente dell’ANAC, Giuseppe Busia, nella sua relazione 2025: “sul totale delle acquisizioni di servizi e forniture del 2024 (l’incidenza numerica degli affidamenti diretti) è risultata essere di circa il 98%. Preoccupa, soprattutto, il crescente addensamento degli affidamenti non concorrenziali tra 135.000 e 140.000, a ridosso della soglia. […] Numerosi risultano i casi di frazionamenti artificiosi degli appalti”. Dati che parlano chiaro – e che preoccupano.
Spesso si tirano in ballo l’urgenza, la necessità di spendere in fretta i fondi pubblici, o la volontà di semplificare. Ma la verità è che il ricorso a modalità non competitive è ormai strutturale, non più legato a contesti di emergenza. Questo approccio non solo mette a rischio la trasparenza, ma spalanca la porta a inefficienze, conflitti d’interesse e distorsioni del mercato, quando non ad infiltrazioni criminali.
Busia lo ha detto chiaramente: «La concorrenza non è un ostacolo, ma una garanzia». E ha ragione. Una gara ben fatta, trasparente e accessibile è la miglior tutela dell’interesse pubblico. Permette di scegliere l’offerta migliore (intesa non meramente come prezzo più basso), di garantire condizioni eque per tutti e di restituire fiducia ai cittadini. Insistere sugli affidamenti diretti e sulle scorciatoie, invece, allontana le imprese serie, abbassa la qualità dei servizi e mina la credibilità delle istituzioni.
È il momento di cambiare rotta. Stato ed enti locali devono tornare a considerare la gara pubblica come la regola, non l’eccezione. Le scorciatoie devono restare tali: strumenti eccezionali, motivati e sotto controllo.
Serve anche una revisione del Codice: meno ambiguità, soglie più basse per gli affidamenti diretti, regole più semplici ma anche più stringenti. E soprattutto, controlli veri. Non servono più norme: servono norme più chiare e davvero applicate. Perché l’interesse pubblico non si difende con le scorciatoie, ma con regole chiare, certe e applicate con coerenza.
Se vogliamo davvero una pubblica amministrazione moderna, efficiente e credibile, la gara pubblica deve tornare ad essere il perno del sistema. Non per burocrazia, ma per garantire che ogni euro speso sia davvero al servizio dei cittadini – e non di interessi opachi o discrezionali. E’ una battaglia culturale, oltre che giuridica ed economica, che deve essere vinta perché non possiamo permetterci altro.