La sicurezza come principio generativo

Il 20 ottobre, alla Camera dei Deputati, si è tornato a parlare di dovere di protezione, un principio che, nella società globale di oggi, non riguarda più soltanto le istituzioni pubbliche, ma coinvolge direttamente anche le imprese, le organizzazioni e i professionisti che operano nel mondo.

L’occasione è stata il convegno “Il Dovere di Protezione. Safety e Security: la tutela di lavoratori e aziende nei contesti di crisi”, nel corso del quale ho voluto condividere alcune riflessioni su un tema cruciale e spesso trascurato: il ruolo che la sicurezza privata italiana può e deve assumere nella protezione dei nostri lavoratori e dei nostri assets all’estero.

La policrisi e la necessità di un nuovo paradigma della sicurezza 

Viviamo in un’epoca che i massimi esperti definiscono di policrisi: crisi che si sovrappongono e si alimentano a vicenda, tra conflitti geopolitici, emergenze climatiche, tensioni sociali, cyberattacchi, pandemie, crisi energetiche. È un mosaico di rischi globali che, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per la Riduzione del Rischio di Disastri (UNDRR) e l’Agenzia dell’Unione Europea per la Sicurezza Informatica (ENISA), impone un approccio olistico e integrato alla sicurezza.

E d’altra parte, è bene ricordare che la sicurezza è uno dei diritti fondamentali dell’uomo. “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”: così recita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’articolo 3.

Nel corso del Convegno, noi relatori abbiamo voluto evidenziare proprio questo: la necessità di un nuovo paradigma della sicurezza, fondato sulla consapevolezza che ogni rischio è interconnesso e che solo una visione condivisa, capace di unire Safety e Security, può garantire una reale tutela delle persone, dei luoghi di lavoro e delle organizzazioni. La sicurezza, oggi, non può più essere intesa come somma di competenze separate, ma come un sistema organico che coinvolge istituzioni, imprese e cittadini in un comune dovere di protezione.

Il duty of care: un obbligo concreto  

Il duty of care — il dovere di protezione — non è più un concetto astratto. È un obbligo concreto, che chiama in causa ogni datore di lavoro e ogni organizzazione. Garantire la sicurezza fisica, psicologica e logistica di chi opera all’estero significa riconoscere che il rischio è sistemico e interdipendente: sanitario, geopolitico, climatico, digitale e sociale. Ogni impresa che si espande nel mondo deve sapere che la tutela dei propri lavoratori è parte integrante della propria responsabilità giuridica, etica e reputazionale.

I numeri, purtroppo, raccontano un’Italia che paga un prezzo altissimo alla mancata prevenzione. Secondo i dati INAIL, nel nostro Paese si registrano ogni anno circa 510.000 infortuni sul lavoro, di cui 30.000 gravi o invalidanti e oltre 1.100 mortali. Il costo sociale complessivo supera il 3% del PIL, pari a circa 60 miliardi di euro l’anno, con una proiezione decennale che sfiora 600 miliardi. E il 60% di questi eventi, stando ai dati ufficiali, è considerato prevenibile. È una cifra che da sola basterebbe a comprendere quanto la sicurezza non sia un costo, ma un investimento strategico.

Il vuoto normativo e il paradosso italiano 

Le imprese italiane presenti stabilmente all’estero sono oltre 120.000, e le nostre multinazionali controllano quasi 25.000 società in 172 Paesi. L’Italia economica è radicata nell’88% dei Paesi riconosciuti dalle Nazioni Unite, ma la protezione dei nostri lavoratori e dei nostri interessi all’estero resta affidata quasi esclusivamente a soggetti stranieri. Non per mancanza di competenze, dal momento che il settore della sicurezza privata italiana è tra i più regolati e qualificati d’Europa, bensì per un vuoto normativo che impedisce agli operatori nazionali di agire legittimamente oltre confine. È un paradosso che impoverisce il sistema Paese: abbiamo professionisti formati, esperti di sicurezza fisica, logistica e tecnologica, eppure ne limitiamo l’operatività proprio nel momento in cui il mondo chiede competenze e affidabilità.

In molti contesti geopolitici, le autorità locali non sono in grado di garantire standards di tutela adeguati. In questi casi, il sistema pubblico da solo non basta. Serve una collaborazione più stretta tra pubblico e privato, una sicurezza partecipata, come la definì il Prefetto Antonio Manganelli nel 2012: la sinergia tra istituzioni e imprese per costruire sicurezza collettiva e nazionale. Un approccio che oggi si traduce nella necessità di un quadro normativo chiaro, capace di valorizzare la professionalità e l’affidabilità degli operatori italiani.

Negli ultimi anni non sono mancati episodi che hanno mostrato quanto possa essere fragile la posizione dei nostri connazionali impegnati in contesti esteri complessi. I rapimenti e, in alcuni tragici casi, le uccisioni di tecnici, operatori e lavoratori italiani impegnati in progetti industriali o infrastrutturali in aree a rischio, come quelli avvenuti in Libia, Niger e Burkina Faso, hanno evidenziato la vulnerabilità dei nostri cittadini e delle nostre imprese nei teatri internazionali di crisi.

Questi episodi hanno reso evidente la necessità di una presenza strutturata di sicurezza nazionale e privata anche oltre i confini, capace di prevenire i rischi e di tutelare i lavoratori che operano in missioni civili o economiche all’estero.

Il caso dei marò italiani 

Emblematico fu poi il caso dei marò italiani, esploso nel 2012, che aprì un lungo dibattito sulla tutela degli operatori italiani impegnati in aree di rischio. Proprio in quegli anni, con il Decreto Legge 12 luglio 2011, n. 107 convertito in Legge 2 agosto 2011 n. 130, e con il decreto attuativo del 28 dicembre 2012 n. 266, fu introdotta la possibilità di imbarcare guardie particolari giurate autorizzate su navi mercantili battenti bandiera italiana che attraversano acque internazionali a rischio pirateria. Da allora, questi professionisti della sicurezza hanno sostituito egregiamente la Marina Militare in molti contesti operativi, garantendo la protezione degli equipaggi e delle rotte commerciali italiane in modo efficace, legittimo e sostenibile. È la dimostrazione che, con regole chiare e una cornice normativa adeguata, la collaborazione tra pubblico e privato può produrre risultati eccellenti anche su scala internazionale.

Una domanda sorge quindi spontanea.

Perché non replicare quel modello anche in altri ambiti? 

In Parlamento è oggi incardinata una proposta di legge che punta proprio a consentire agli operatori italiani della sicurezza privata di operare all’estero per proteggere imprese e lavoratori, obiettivo che ASSIV sostiene convintamente. È una misura di buon senso, che tratterrebbe in Italia valore economico e competenze, e al tempo stesso rafforzerebbe la sicurezza nazionale. Ma non basta una norma, anche se è un primo passo: serve una visione strategica

Una nuova cultura della sicurezza 

Occorre infatti modificare il TULPS per superare il vincolo territoriale, istituire una cabina di regia interministeriale tra Interno, Esteri, Difesa e Imprese, e prevedere incentivi fiscali e premialità per le aziende che adottano protocolli di sicurezza certificati. Tutto questo come base per una nuova cultura della sicurezza, fondata su governance unificata, interoperabilità tecnologica, formazione multidisciplinare e partenariato pubblico-privato. Inoltre, poiché è il datore di lavoro che risponde della sicurezza dei propri dipendenti, e della propria organizzazione, (vedi i doveri che derivano dalla norma NIS2), è fondamentale per la riuscita di ogni operazione di prevenzione/mitigazione del rischio che i professionisti della sicurezza, intesa in senso omni comprensivo, lavorino in staff con l’alta direzione dell’azienda.

Come abbiamo visto, il tema della sicurezza è centrale in ogni azienda, e dato l’altissimo numero di imprese italiane che operano all’estero, la sicurezza privata oltre confine rappresenta oggi una necessità concreta e strategica. E, se ben regolata, può diventare uno dei pilastri della proiezione internazionale del nostro Paese, un vantaggio competitivo per il sistema produttivo e un segno di civiltà per il mondo del lavoro.

Come ricordava John F. Kennedy, “la sicurezza non è principalmente una questione di armi, ma di fiducia: fiducia nei valori, nelle persone e nelle istituzioni che li difendono”. È in questa fiducia che si radica il dovere di protezione, oggi volto moderno della responsabilità sociale d’impresa.

La sicurezza non è dunque un concetto difensivo, ma un principio generativo: produce stabilità, attrae investimenti, crea lavoro e rafforza la credibilità del Paese.

Oggi abbiamo l’occasione di costruire un modello italiano di sicurezza internazionale fondato su:

  • professionalità,
  • legalità e
  • collaborazione istituzionale.

Un modello che renda più sicure le nostre imprese, più tutelati i nostri lavoratori e più forte la reputazione dell’Italia nel mondo.

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