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Garante Privacy: Colloquio e questionario al rientro dopo la malattia. Azienda sanzionata

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Il trattamento dei dati personali effettuato dalla Società che sottopone i lavoratori ad un colloquio con il proprio responsabile al rientro da periodi di assenza per malattia, redigendo un questionario contenente anche dati relativi alla salute, risulta non conforme alla disciplina di protezione dei dati personali.   

Con il provvedimento 390/2025 il Garante Privacy ha sanzionato un’azienda a seguito di segnalazione sindacale nella quale veniva evidenziato una pratica diffusa all’ interno dell’azienda : dopo assenze per malattia, infortunio o ricovero, i lavoratori venivano sottoposti a un colloquio accompagnato da un questionario. Il documento, compilato da un diretto responsabile, veniva poi trasmesso all’Ufficio Risorse Umane che con il responsabile e/o con il medico competente valutava, in base a quanto rappresentato dall’azienda, eventuali iniziative a tutela della salute dei lavoratori, ad esempio modificando la postazione di lavoro o intervenendo sulle relazioni lavorative. Una prassi gestionale che, secondo gli scritti difensivi dell’ azienda,  sarebbe volta a garantire il corretto adempimento dei propri doveri di tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori ai sensi dell’ art. 2087 C.C. .

Nonostante i buoni propositi, durante l’ istruttoria il Garante ha però riscontrato numerose violazioni, tra cui :

1.       In violazione di quanto previsto dall’ art. 13 e art. 5, parag. 1, lett. a) del Reg. UE/2016/679, l’assenza di un’informativa chiara e trasparente ai dipendenti in merito allo specifico trattamento dei propri dati ;

2.       In violazione degli art. 6 e 9 del Reg. UE/2016/679 l’ assenza di un’idonea condizione di liceità. Il trattamento posto in essere con la compilazione del questionario è risultato privo di base giuridica in quanto non rientrante nell’attività di sorveglianza sanitaria , attività che, comunque è, per espressa previsione normativa , di competenza esclusiva del medico competente e non del datore di lavoro;

3.       La condotta posta in essere della società ha violato anche il principio di minimizzazione enunciato all’ art. 5, parag. 1, lett. c) del Reg. UE/2016/679, con un’inutile duplicazione dell’acquisizione di dati rispetto a quelli che l’ ufficio del personale avrebbe dovuto già legittimamente possedere;

4.       In violazione degli art. 5, parag. 1, lett. e) e art. 88 Reg. UE/2016/679, l’Autorità ha inoltre ravvisato una conservazione di dati dei lavoratori non pertinenti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore per un lasso di tempo ( 10 anni ) sproporzionato rispetto alle finalità per cui venivano raccolti.

Il Garante ha dunque ordinato all’azienda il divieto del trattamento dei dati e la cancellazione di quelli già raccolti e conservati. Nel comminare la sanzione di 50 mila euro, l’Autorità ha tenuto conto della gravità e della durata delle violazioni, del fatto che il trattamento abbia riguardato anche dati sulla salute, del numero di dipendenti coinvolti (circa 890) e del fatturato dell’azienda.

Fonte; WST Law & Tax – Lavorosi.it

Convertito in legge il decreto Ilva, le misure in materia di lavoro e politiche sociali

Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.180/2025 la legge primo agosto 2025 n. 113, di conversione, con modificazioni del decreto legge 26 giugno 2025, n. 92, recante “Misure urgenti di sostegno ai comparti produttivi”.

Nell’iter di conversione, il testo ha accolto alcune disposizioni in materia di lavoro e politiche sociali, inserite all’interno del Capo II (“Misure urgenti in materia di ammortizzatori sociali e disposizioni in materia di lavoro e politiche sociali”). In particolare si segnala l’inserimento nel provvedimento originale di disposizioni a tutela delle imprese e dei lavoratori e lavoratrici in caso di emergenze climatiche, estese anche agli operai agricoli a tempo determinato (articolo 10-bis), nonché del contributo straordinario dell’Assegno di inclusione per i nuclei familiari che nel 2025 concludano le prime 18 mensilità del beneficio (articolo 10-ter).

Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali

Huffington Post, Maria Cristina Urbano: Subito una revisione del Codice dei contratti pubblici

Stato ed enti locali devono tornare a considerare la gara pubblica come la regola, non l’eccezione. Le scorciatoie devono restare tali: strumenti eccezionali, motivati e sotto controllo. Meno ambiguità, soglie più basse per gli affidamenti diretti, regole più semplici ma anche più stringenti. E soprattutto controlli veri

Il Codice dei contratti pubblici è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui lo Stato e le pubbliche amministrazioni gestiscono l’affidamento di lavori, servizi e forniture. È la “regia” che stabilisce come spendere una parte importante delle risorse pubbliche, con effetti diretti sull’efficienza dell’amministrazione, sulla qualità dei servizi e sull’uso corretto del denaro pubblico.

Nonostante le recenti modifiche, però, questo strumento continua a presentarsi come un impianto normativo complesso, frammentato e spesso aggirabile. E proprio qui sta il problema: ciò che dovrebbe essere l’eccezione – ovvero il ricorso a procedure non ordinarie – rischia sempre più di diventare la norma.

Il punto più critico riguarda l’indebolimento del principio della gara pubblica, che dovrebbe essere il cuore del sistema. La concorrenza tra operatori economici, garantita da procedure aperte e trasparenti, è infatti l’unico modo per assicurare scelte imparziali, servizi di qualità e un uso efficiente delle risorse. Eppure, negli anni, sono aumentate a dismisura le deroghe: affidamenti diretti, procedure negoziate senza bando e altri strumenti “semplificati” che, da soluzioni straordinarie, stanno diventando prassi quotidiana.

Lo denunciamo da tempo come Assiv, ma stavolta a lanciare un segnale forte è stato il presidente dell’ANAC, Giuseppe Busia, nella sua relazione 2025: “sul totale delle acquisizioni di servizi e forniture del 2024 (l’incidenza numerica degli affidamenti diretti) è risultata essere di circa il 98%. Preoccupa, soprattutto, il crescente addensamento degli affidamenti non concorrenziali tra 135.000 e 140.000, a ridosso della soglia. […] Numerosi risultano i casi di frazionamenti artificiosi degli appalti”. Dati che parlano chiaro – e che preoccupano.

Spesso si tirano in ballo l’urgenza, la necessità di spendere in fretta i fondi pubblici, o la volontà di semplificare. Ma la verità è che il ricorso a modalità non competitive è ormai strutturale, non più legato a contesti di emergenza. Questo approccio non solo mette a rischio la trasparenza, ma spalanca la porta a inefficienze, conflitti d’interesse e distorsioni del mercato, quando non ad infiltrazioni criminali.

Busia lo ha detto chiaramente: «La concorrenza non è un ostacolo, ma una garanzia». E ha ragione. Una gara ben fatta, trasparente e accessibile è la miglior tutela dell’interesse pubblico. Permette di scegliere l’offerta migliore (intesa non meramente come prezzo più basso), di garantire condizioni eque per tutti e di restituire fiducia ai cittadini. Insistere sugli affidamenti diretti e sulle scorciatoie, invece, allontana le imprese serie, abbassa la qualità dei servizi e mina la credibilità delle istituzioni.

È il momento di cambiare rotta. Stato ed enti locali devono tornare a considerare la gara pubblica come la regola, non l’eccezione. Le scorciatoie devono restare tali: strumenti eccezionali, motivati e sotto controllo.

Serve anche una revisione del Codice: meno ambiguità, soglie più basse per gli affidamenti diretti, regole più semplici ma anche più stringenti. E soprattutto, controlli veri. Non servono più norme: servono norme più chiare e davvero applicate. Perché l’interesse pubblico non si difende con le scorciatoie, ma con regole chiare, certe e applicate con coerenza.

Se vogliamo davvero una pubblica amministrazione moderna, efficiente e credibile, la gara pubblica deve tornare ad essere il perno del sistema. Non per burocrazia, ma per garantire che ogni euro speso sia davvero al servizio dei cittadini – e non di interessi opachi o discrezionali. E’ una battaglia culturale, oltre che giuridica ed economica, che deve essere vinta perché non possiamo permetterci altro.

Leggi l’articolo sull’Huffington Post

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Agenzia delle Entrate sul Welfare: Tassate le indennità obsolete convertite in benefits

Agenzia delle Entrate – Risposta n. 195/2025

Con la risposta n. 195/2025, l’Agenzia delle Entrate fornisce importanti chiarimenti sulla tassazione di alcune indennità ritenute obsolete in ambito contrattuale e quindi sostituite dal datore di lavoro, tramite accordi sindacali, con prestazioni di welfare aziendale.

Nel caso affrontato dall’ Agenzia, una società ha previsto, in attuazione di una clausola contenuta nel nuovo contratto collettivo nazionale applicato in azienda, la soppressione dal 2025 di alcune indennità ritenute obsolete. Ai dipendenti già percettori è stata offerta la possibilità di convertirle in prestazioni di welfare aziendale, beneficiando di un incremento percentuale dell’importo.

Secondo la ricostruzione dell’ istante, la previsione contrattuale, essendo destinata solo a coloro che percepivano tali indennità, consente l’ individuazione di una categoria omogenea di lavoratori come richiesto dalla normativa che disciplina la concorrenza o non alla formazione del reddito di lavoro dipendente di beni, opere, servizi, prestazioni o rimborsi percepiti in relazione al rapporto di lavoro. L’ istante ritiene, dunque, che le prestazioni di welfare, frutto della conversione , non assumerebbero una connotazione strettamente reddituale in quanto utilità ulteriori accordate in sede sindacale.

Di diverso avviso l’ Agenzia che in risposta alla richiesta di parere evidenzia come l’accoro sindacale, più che consentire l’accesso a prestazioni di welfare in favore della generalità dei dipendenti, mira a sostituire voci imponibili della retribuzione. Ciò trova conferma nel fatto che, ai dipendenti che non hanno espresso la propria preferenza per la corresponsione delle indennità obsolete sotto forma di welfare aziendale, verrà erogata in loro sostituzione una somma pari al 100 % del valore medio percepito negli ultimi 5 anni.  

L’ Agenza conclude evidenziando come questi meccanismi contrattuali costituiscano un aggiramento degli ordinari criteri di determinazione del reddito di lavoro, in violazione dei principi di capacità contributiva e di progressività della tassazione.  

La quota di retribuzione relativa ad indennità soppresse, convertite su scelta del dipendente interessato in prestazioni di welfare, non può fruire del regime di esclusione dalla formazione del reddito di lavoro dipendente, di cui all’ art. 51, commi 2 e 3, del  TUIR, in quanto la conversione tra remunerazione monetaria e benefits è al di fuori delle condizioni fissate dalla Legge di Stabilità 2016,  ossia :   

·       ­ le somme devono costituire premi di risultato o utili riconducibili al regime agevolato ( art. 1, comma 182, della legge di Stabilità per il 2016);

·       ­ la contrattazione di secondo livello deve riconoscere al dipendente la facoltà di convertire i premi o gli utili in benefit di cui ai commi 2 e 3 dell’ art. 51 del TUIR. 

WST Law & Tax – Lavorosi.it