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Sicurezza dei Presidi Sanitari: quali soluzioni? Le proposte di ASSIV

Sicurezza dei Presidi Sanitari: quali soluzioni? Le proposte di ASSIV

di Maria Cristina Urbano – 11 Settembre 2024

Assiv Membri Sicurezza Sanitaria

Il video dei medici e degli operatori sanitari barricati in un ospedale pugliese ha fatto recentemente il giro delle televisioni e del web e ha riportato all’attenzione del grande pubblico un tema sul quale ASSIV ha ripetutamente richiamato l’attenzione delle competenti istituzioni: quello della sicurezza nei presidi sanitari.

Il Parlamento, negli ultimi anni, ha più volte affrontato il problema per individuare soluzioni alternative alla strada più semplice, ossia quella di prevedere la presenza fisica nelle strutture di operatori della sicurezza, ma che tuttavia risulta impraticabile per la oramai cronica carenza di personale delle Forze dell’Ordine. Recentemente, con l’approvazione nell’agosto del 2020 della legge n. 113, è stato fatto un importante passo avanti nel tentativo di rafforzare la tutela della sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie.

Sebbene la norma in questione sia figlia dell’onda emotiva generata dalle immagini di infermieri e medici che – stravolti – avevano combattuto e si stavano ancora battendo contro la pandemia da Covid-19, le disposizioni in essa contenute avrebbero potuto porre le condizioni per un netto miglioramento della situazione, a vantaggio di operatori e pazienti.

Ebbene, da quanto possiamo constatare, purtroppo le cose stanno andando diversamente. Come mai?

Cosa dice la Legge n. 113 dell’agosto 2020

È utile iniziare con il rileggere rapidamente la norma, che ha i suoi assi portanti da un lato sull’istituzione di un Osservatorio, che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto raccogliere dati quantitativi e qualitativi del fenomeno e proporre soluzioni praticabili, dall’altro su un inasprimento delle pene o delle sanzioni per coloro che si rendono rei di tali odiosi crimini.

In particolare, l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie, istituito presso il Ministero della Salute, ha il compito di monitorare: gli episodi di violenza subiti dagli operatori nell’esercizio delle loro funzioni; gli eventi sentinella che possano dar luogo ai suddetti fatti; l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione previste dalla disciplina in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, anche promuovendo l’utilizzo di strumenti di videosorveglianza; la promozione di studi per la formulazione di proposte e misure idonee a ridurre i fattori di rischio negli ambienti più esposti; la diffusione delle buone prassi in materia di sicurezza; corsi di formazione per il personale medico e sanitario, finalizzati alla prevenzione e gestione di situazioni di conflitto nonché a migliorare la qualità della comunicazione con gli utenti.

La norma interviene, inoltre, sull’art. 583-quater c.p. per prevedere che le lesioni gravi o gravissime procurate in danno di personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria siano punite con pene aggravate (per le lesioni gravi, reclusione da 4 a 10 anni, e per le lesioni gravissime, reclusione da 8 a 16 anni). È stata introdotta, tra le circostanze aggravanti comuni del reato, l’avere agito, nei delitti commessi con violenza e minaccia, in danno degli esercenti le professioni sanitarie o socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni.

Si è prevista – salvo che il fatto costituisca reato – la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 500 a euro 5.000 per chiunque tenga condotte violente, ingiuriose, offensive, ovvero moleste nei confronti di personale delle strutture sanitarie e socio sanitarie pubbliche o private.

Si è istituita, infine, la “Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari” con l’obiettivo di sensibilizzare sul fenomeno e sulle sue conseguenze.

Lo scenario attuale, i dati dell’Osservatorio relativi alla Sicurezza dei Presidi Sanitari e l’analisi di ASSIV

La giornata nazionale è stata istituita nel 2022, ed è il 12 marzo: da allora i dati divulgati dall’Osservatorio dipingono una situazione tutt’altro che in fase di miglioramento. Ecco quelli diffusi a marzo 2024: nel 2022 i casi di violenze, aggressioni e minacce nei confronti del personale sanitario accertati dall’Inail sono stati 2.243, in aumento del 14% rispetto all’anno precedente. Si tratta soprattutto di episodi di violenza esercitata da persone esterne all’azienda (reazioni da parte dei pazienti o dei loro familiari) e, in minor misura, di liti e incomprensioni tra colleghi. Nel triennio 2020-2022 i casi di violenza nella sanità e assistenza sociale sono stati circa seimila, con un’incidenza del 41% rispetto a tutti quelli registrati nello stesso periodo tra i lavoratori dell’Industria e dei servizi. Circa il 70% ha riguardato le donne, mentre per entrambi i generi il 39% interessa personale socio-sanitario tra i 50 e i 64 anni (per le donne la quota sale al 40%), poco più del 36% tra i 35 e i 49 anni, il 23% fino a 34 anni e l’1% oltre i 64 anni. Ancora, la categoria dei tecnici della salute è quella più coinvolta in violenze e aggressioni, con circa il 41% del totale, seguita dalle professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali (27%) e da quella dei servizi personali e assimilati (13%). Più distaccata, con il 3,5% dei casi di aggressione in sanità, la categoria dei medici, che non include nell’obbligo assicurativo Inail i medici di base e i liberi professionisti. Quasi un’aggressione su tre è avvenuta nel Nord-Ovest (17% in Lombardia e 8% nel Piemonte), il 28% nel Nord-Est (14% in Emilia Romagna e 9% in Veneto), il 22% nel Mezzogiorno (7% in Sicilia e 5% in Puglia) e il 19% al Centro (9% in Toscana e 6% nel Lazio). Circa il 59% dei casi ha comportato una contusione, il 22% una lussazione, distorsione e distrazione, l’8% una frattura e il 7% una ferita. La principale sede del corpo coinvolta nelle violenze è la testa (13% faccia, 9% cranio, 4% naso), seguita da parete toracica (9%), cingolo toracico (8%), polso (7%) e colonna vertebrale/cervicale (6%).

Come detto, compito dell’Osservatorio è di fornire dati, ma anche di suggerire come intervenire per risolvere una situazione così critica.

Nel report i tempi di attesa e la burocrazia sono indicati come i principali fattori di rischio. La complessa relazione tra l’operatore sanitario, i pazienti o i loro familiari, dalla quale possono sfociare episodi di aggressione, può essere migliorata attraverso procedure organizzative volte a ridurre la burocrazia e i tempi di attesa per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, ad aumentare e rendere più puntuale l’informazione e a incrementare la partecipazione, con l’eliminazione di barriere culturali e linguistiche.

Tutte misure sensate e ragionevoli, ma allora: come mai la situazione non migliora?

A nostro parere perché, rimanendo con una metafora in campo sanitario, bisogna stabilizzare il paziente prima di iniziare a curarlo. In sostanza, la norma introduce misure estremamente efficaci per la prevenzione, ma queste richiedono cambiamenti anche radicali su una molteplicità di aspetti, come quello culturale o quello relativo alla gestione degli ospedali, che hanno bisogno di lunghi lassi di tempo per sedimentare. Nel frattempo il personale medico continua a sentirsi emotivamente in prima linea, senza protezione, soprattutto nelle strutture sanitarie che sono davvero in periferia e che, proprio per questo, assolvono ad una funzione indispensabile che non viene minimamente riconosciuta, e il paziente resta esposto all’impersonale brutalità di una burocrazia che lascia impotenti nel momento del maggiore bisogno e della maggiore vulnerabilità.

Dunque, ecco che il riflesso condizionato generato dalla diffusione della notizia dell’ennesima aggressione al personale medico consiste nel chiedere a gran voce la presenza nelle strutture sanitarie nientemeno che dell’Esercito! Ovvio, si vuole cercare di stabilizzare il paziente, cioè di eliminare la principale condizione di vulnerabilità, il rischio di rimanere esposti, indifesi, alla violenza altrui.

ASSIV: possibili soluzioni al problema della Sicurezza dei Presidi Sanitari

In proposito, ho recentemente pubblicato un articolo nel quale ho provato a spiegare quale uso poco efficace e per niente efficiente sia quello dei nostri militari in compiti di ordine pubblico.  Non posso, pertanto, che considerare alla stessa stregua un loro eventuale impiego negli ospedali. La soluzione più naturale sarebbe tornare a garantire un forte presidio degli agenti delle Forze dell’Ordine in ogni struttura, ma anche questa soluzione, come più sopra ricordato, risulta impraticabile a causa della loro persistente carenza di organicoil cui impiego è invece indispensabile in compiti più alti e non delegabili.

Esiste una soluzione? A conti fatti, è proprio il caso di dirlo, sì! Esiste in Italia un importante comparto, quella della vigilanza privata, già incardinato dalla vigente normativa nel sistema sicurezza Paese, che ha le competenze professionali e organizzative e le dotazioni tecnologiche atte a svolgere questa importante funzione, e a costi certamente molto

minori che non piuttosto l’assunzione di nuovo personale nelle FF.OO. Ma ovvio che servono le risorse finanziarie perché, come ricorda la saggezza dei nostri nonni: non si può fare il matrimonio con i fichi secchi. Ma non basta, in questo, come in molti altri settori della Pubblica Amministrazione nei quali la vigilanza privata già opera, è necessario dotarsi di Security Managers capaci di affiancare la Direzione Sanitaria e Amministrativa nella corretta valutazione dei rischi pertinenti ciascuna struttura, passaggio propedeutico indispensabile per la redazione di bandi di gara rivolti alla vigilanza privata, capaci di ottimizzare l’impiego delle risorse pubbliche e l’efficacia del servizio, a vantaggio di operatori, pazienti e utenti in genere.

Perché, lanciamo l’idea, l’Osservatorio non decide di avvalersi di professionisti della sicurezza che, leggendo e interpretando correttamente i dati raccolti, anche con l’ausilio delle Associazioni di Categoria della vigilanza privata che hanno il vantaggio di operare sul campo, possano stendere delle linee guida per la predisposizione dei bandi di gara per l’affidamento dei servizi di vigilanza? Non sarebbe il solito, e alquanto inefficace, esercizio teorico più volte svolto dalle centrali di committenza che, prive delle necessarie competenze tecniche specifiche, non riescono a produrre bandi di gara adeguati. Una tale soluzione significherebbe “fare sistema”: una P.A. capace di raccogliere i dati, interpretarli e, avvalendosi degli specialisti del settore, tradurli in bandi di gara capaci di ottimizzare l’impiego dei soldi pubblici e garantire la sicurezza di operatori sanitari e pazienti; gli Istituti di vigilanza privata finalmente posti nelle condizioni di svolgere al meglio un lavoro delicato, con remunerazioni adeguate alle professionalità impiegate, anche in funzione sussidiaria alle Forze dell’ordine, laddove un serio risk assessment suggerisse la presenza contemporanea di Forza Pubblica e Vigilanza Privata; Forze dell’Ordine ed Esercito libere di svolgere le funzioni essenziali loro destinate dalla Costituzione.

Conclusione

Sembra tutto semplice, vero? Bisognerebbe solo individuare chi continua a mettere sabbia nell’ingranaggio… e intanto Stato e contribuente, illudendosi di poco spendere, tanto spandono…

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Pubblicato il documento completo della Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale 2024-2026

Pubblicato il documento completo della Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale 2024-2026

Il testo è stato elaborato da un Comitato di esperti per supportare il Governo nella definizione di una normativa nazionale e delle politiche sull’IA.

Dopo la pubblicazione dell’AI Act sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea e dall’inizio delle audizioni in commissione, presso il Senato della Repubblica, del disegno di legge sull’intelligenza artificiale, è disponibile online il documento integrale della Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale 2024-2026.

Il testo è stato redatto da un Comitato di esperti per supportare il Governo nella definizione di una normativa nazionale e delle strategie relative a questa tecnologia . Il Comitato, composto da quattordici membri di comprovata competenza ed esperienza, ha lavorato intensamente per analizzare l’impatto dell’intelligenza artificiale e mettere a punto un piano strategico con l’obiettivo di guidare lo sviluppo dell’IA in modo responsabile e inclusivo.

Coordinato da Gianluigi Greco, professore di informatica all’Università della Calabria e presidente di AIxIA, il Comitato include figure di spicco come Viviana Acquaviva, Paolo Benanti, Guido Boella, Marco Camisani Calzolari, Virginio Cantoni, Maria Chiara Carrozza, Rita Cucchiara, Agostino La Bella, Silvestro Micera, Giuliano Noci, Edoardo Carlo Raffiotta, Ranieri Razzante e Antonio Teti.

La Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale è un passo cruciale per l’Italia, che mira a assumere un ruolo di primo piano in materia di IA e transizione tecnologica, anche grazie all’importante ruolo che sta svolgendo presidenza del G7. Il documento riflette l’impegno del Governo nel creare un ambiente in cui l’IA possa svilupparsi in modo sicuro, etico e inclusivo, massimizzando i benefici e minimizzando i potenziali effetti avversi.

Dopo un’analisi del contesto globale e del posizionamento italiano, il documento definisce le azioni strategiche, raggruppate in quattro macroaree: Ricerca, Pubblica Amministrazione, Imprese e Formazione. La strategia propone, inoltre, un sistema di monitoraggio della relativa attuazione e un’analisi del contesto regolativo che traccia la cornice entro cui dovrà essere dispiegata.

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Indagine Confindustria sul lavoro del 2024

Indagine Confindustria sul lavoro del 2024

Giovanna Labartino, Francesca Mazzolari e Giovanni Morleo

  • L’annuale indagine Confindustria sul lavoro, svolta tra febbraio e aprile 2024, fornisce informazioni per il 2023 e inizio 2024 su struttura dell’occupazione e politiche aziendali di gestione del lavoro nelle aziende associate. In calce a questa pagina sono disponibili le tavole riassuntive e comparative relative alle principali variabili oggetto di indagine.
  • Particolare attenzione quest’anno è dedicata, da un lato, al tema delle competenze di difficile reperimento da parte delle imprese e delle azioni intraprese per farvi fronte e, dall’altro, ai premi variabili collettivi erogati e alle iniziative di welfare adottate a livello aziendale. L’indagine, inoltre, riprende il tema del lavoro agile, continuando a monitorne la diffusione e chiedendo alle imprese quanti lavoratori siano stati impiegati con questa modalità di lavoro e con quale frequenza di utilizzo.
  • Tra le imprese con ricerche di personale in corso al momento dell’indagine, il 69,8% dichiara di riscontrare difficoltà di reperimento. Disaggregando tali difficoltà in relazione alle competenze ricercate, esse emergono soprattutto per le competenze tecniche (complessivamente segnalate dal 69,2% delle imprese) e per le mansioni manuali (nel 47,9% dei casi a livello nazionale e nel 58,9% nel settore industriale). Con riferimento agli ambiti aziendali, in due terzi dei casi le difficoltà vengono riscontrate nella ricerca di competenze funzionali alla transizione digitale, in quasi un terzo dei casi se funzionali a una maggiore internazionalizzazione dell’impresa, nel 15% circa dei casi in funzione della transizione green. Tra le azioni intraprese in risposta al fabbisogno di competenze, le imprese prevedono principalmente attività di formazione rivolte al personale attualmente in forza (nel 59,7% dei casi). Quasi la metà delle imprese (49%) fa, inoltre, ricorso a servizi esterni come le consulenze e quasi un terzo (28,5%) si dichiara coinvolto in programmi educativi sul territorio (ITS Academy, PCTO, tirocini curriculari, ecc.).
  • Con riferimento al lavoro agile, i risultati indicano che il 32,6% delle imprese che hanno partecipato all’indagine ha utilizzato questa modalità di lavoro nel 2023. In particolare, questa quota risulta quasi quadruplicata rispetto alle imprese che lo utilizzavano prima del Covid. Per quanto riguarda l’intensità di utilizzo del lavoro agile, nelle imprese in cui esso è previsto, mediamente il 34% dei dipendenti non dirigenti ha utilizzato tale modalità di lavoro, per lo più per 2 o 3 giorni a settimana (tra 4 e 12 giorni al mese).
  • L’indagine continua a monitorare l’applicazione di contratti collettivi aziendali e le materie regolate da questi accordi. A inizio 2024 oltre un quarto delle imprese associate (il 25,2%) applica un contratto aziendale, cioè firmato con RSU/RSA o rappresentanze territoriali. La diffusione è maggiore nell’industria in senso stretto (dove il contratto aziendale è presente nel 33,4% delle imprese) rispetto ai servizi (18,1%) e nelle imprese più grandi (76,9% in quelle con 100 o più dipendenti) rispetto a quelle più piccole (11,6% fino ai 15 dipendenti).
  • La diffusione della contrattazione aziendale mostra quindi percentuali più elevate se calcolata sulla base degli addetti: risultano occupati presso aziende che la applicano il 65,1% dei dipendenti nel campione complessivo – media tra il 69% registrato nell’industria in senso stretto e il 59,1% registrato nei servizi.
  • Le materie regolate dal contratto aziendale, quando presente, sono principalmente i premi di risultato collettivi (nel 60,4% dei contratti), la conversione dei premi di risultato in welfare (47,7%), l’orario di lavoro (46,7%), l’offerta di servizi di welfare aggiuntivi (39%), la conciliazione vita-lavoro (36,7%).
  • L’indagine di quest’anno contiene un focus proprio con riferimento ai premi variabili collettivi e alla loro conversione in welfare. Innanzitutto, l’indagine ha rilevato che nel 2023 in oltre il 60% delle imprese sono stati effettivamente erogati i premi variabili collettivi previsti dal contratto aziendale. Inoltre, nel 40,2% delle imprese mediamente un terzo dei lavoratori ha deciso di convertire i due terzi del premio ricevuto in welfare.
  • Il 51,3% delle imprese hanno dichiarato di erogare welfare. Tale quota deriva dalla somma di coloro che lo erogano perché previsto dalla contrattazione aziendale (14,4% del totale) e di coloro che lo erogano perché previsto da altre fonti (es. CCNL) o su iniziativa unilaterale del datore di lavoro.

1. L’occupazione nelle imprese del Sistema Confindustria nel 2023

L’occupazione è aumentata, trainata da quella femminile L’occupazione dipendente complessiva nelle imprese associate a Confindustria è aumentata dell’1,4% tra fine 2022 e fine 2023, sintesi di un incremento dello 0,5% nelle imprese dei servizi e dell’1,9% in quelle dell’industria. L’aumento coinvolge le imprese di ogni classe dimensionale – seppur in misura diversa – da quelle fino a 15 dipendenti (+0,6%) a quelle con 16-99 dipendenti (+2,1%) a quelle da 100 dipendenti in su (+1,1%).

Nelle imprese associate, la crescita occupazionale nel corso del 2023 è trainata dalla componente femminile (+3,4%), mentre quella maschile risulta pressocchè stabile (+0,3%; Figura A). Secondo i dati della Rilevazione sulle Forze di Lavoro condotta dall’Istat, l’occupazione alle dipendenze complessiva in Italia nel 2023 ha invece registrato una crescita media annua simile per uomini e donne, con un aumento rispettivamente del +2,2% e del +2,5%.

Rispetto alla tipologia contrattuale, nel corso del 2023 nelle imprese associate si registra una crescita degli occupati dipendenti a tempo indeterminato (+1,7%) e una contrazione di quelli a tempo determinato (-5,4%), una divaricazione registrata anche per il complesso dell’occupazione dipendente in Italia (dati Istat). Rispetto al totale, l’occupazione a tempo indeterminato si conferma la tipologia contrattuale di gran lunga prevalente nelle imprese associate (il 92,6% del totale dei dipendenti è impiegato con tali contratti), mentre gli occupati a tempo determinato rappresentano il 5,2% del totale. Tra il 2022 e il 2023 risultano in marcato aumento gli apprendisti (+14,9%), sia nell’industria (+5,4%) sia e soprattutto nei servizi (+29,4%), dove d’altronde erano calati nei tre anni precedenti.

Diffuso l’impiego dei contratti di somministrazione Quasi un terzo delle imprese associate (30,6%) ha impiegato nel 2023 almeno un lavoratore in somministrazione a tempo determinato (ex-interinale), con una diffusione più alta nell’industria (39,9%) e nelle grandi imprese (72,3% in quelle con almeno 100 dipendenti). Per dare un’idea dell’intensità di utilizzo, si consideri che il numero di lavoratori in somministrazione di cui si avvalsa l’impresa complessivamente nell’anno è pari mediamente al 7,4% della forza lavoro complessiva riportata al 31 dicembre 2023.

La somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing) è stata utilizzata mediamente dal 9,6% delle imprese, anche in questo caso più nell’industria (14,3%) e nelle grandi imprese (35,1%), per una quota di lavoratori somministrati in corso d’anno pari all’1,0% della forza aziendale (Figura B).

Il ricorso alla somministrazione, in termini sia di imprese che lo utilizzano sia di lavoratori coinvolti, è risultato nel 2023 ampio e molto stabile rispetto alla precedente rilevazione relativa al 2021, confermando che si tratta di una forma di impiego a cui le imprese fanno efficacemente ricorso per selezionare tempestivamente risorse specifiche da inserire in organico.

Turnover del lavoro più alto nei servizi Come nelle precedenti edizioni, anche quest’anno l’indagine misura il turnover in entrata (pari al 17,8% nel 2023) e in uscita (16,2%). Il tasso di turnover complessivo, quindi, dato dalla somma di lavoratori assunti e cessati nel corso dell’anno sul totale dell’occupazione a fine 2022, è risultato pari al 34,0%. Il turnover si conferma decisamente più alto nelle imprese dei servizi (47,1%) rispetto all’industria (25,7%), mentre non si rilevano differenze sostanziali tra classi dimensionali.

Gran parte del turnover in uscita è determinato da dimissioni, che hanno rappresentato la causa della fine del rapporto di lavoro nel 65,8% dei casi di cessazione.

2. Le assenze dal lavoro nel 2023

Tasso di assenteismo più alto in imprese più grandi Nel corso del 2023 le ore lavorabili pro-capite, al netto delle ore di Cassa Integrazione Guadagni, sono state mediamente pari a 1.701. Di queste, 111,9 non sono state lavorate a causa delle assenze dal lavoro (retribuite e non). Il tasso di assenteismo (calcolato come il rapporto tra le ore di assenza e le ore lavorabili) si è dunque attestato al 6,6%.

L’incidenza delle assenze, come calcolata sulla base dei dati dell’indagine Confindustria sul lavoro, è risultata più alta nei servizi (7,2%) che nell’industria in senso stretto (6,2%).

Il tasso di assenteismo si è confermato crescente all’aumentare della dimensione aziendale: 7,3% in quelle con 100 e più addetti, 4,5% in quelle fino ai 15 (Figura C).

Causali di assenza diverse per genere La malattia non professionale si è confermata la causa più frequente di assenza (3,5% delle ore lavorabili di un addetto medio), seguita dai congedi retribuiti (pari all’1,1%), mentre le categoria dei permessi per Legge 104 e degli altri permessi retribuiti rappresentano ciascuna lo 0,7% delle ore di assenza nell’anno. L’incidenza delle assenze è risultata pari al 5,8% tra gli uomini e all’8,3% tra le donne. I congedi parentali spiegano la quasi totalità della differenza, essendo pari al 2,6% delle ore lavorabili per le donne e allo 0,5% per gli uomini.

3. Le politiche aziendali, il lavoro agile e il capitale umano

Contratto aziendale presente in un’impresa associata su quattro Sulla base dei risultati dell’ultima indagine Confindustria sul lavoro, nei primi mesi del 2024 oltre un quarto delle imprese associate (25,2%) sono stimate applicare un contratto aziendale, cioè firmato con RSU/RSA o rappresentanze territoriali. Il dato complessivo risulta come media di una diffusione più alta nell’industria in senso stretto (33,4%) e più bassa nei servizi (18,1%).

Gli accordi sono anche molto più diffusi nelle grandi imprese (68,3% tra quelle con almeno 100 dipendenti) rispetto alle piccole (11,8% se i dipendenti sono al massimo 15). Di conseguenza, la percentuale di lavoratori coperti da un contratto aziendale è più alta rispetto alla quota di imprese e raggiunge quasi i due terzi del totale nel campione complessivo (65,1%) e il 70,8% nell’industria in senso stretto.

Tra le materie regolate nei contratti aziendali, in primis, i premi di risultato collettivi: oltre il 60% dei contratti aziendali nelle imprese associate a Confindustria li prevede, e la quota sale all’83,4% tra le imprese con almeno 100 dipendenti (la diffusione raggiunge il 91,3% nelle grandi aziende nell’industria al netto delle costruzioni).

Molto diffuse nella contrattazione aziendale anche la possibilità di conversione del premio di risultato in welfare (47,7%) e la regolazione dell’orario di lavoro (46,7%). In oltre un terzo dei contratti aziendali sono regolati, inoltre, l’offerta di servizi di welfare aggiuntivi rispetto a quelli previsti per legge, CCNL o regolamento aziendale (39%), iniziative di conciliazione vita-lavoro (36,7%) e il lavoro agile (33,9%; Tabella A).

I premi variabili collettivi incidono più per operai e impiegati Tra le imprese che applicano un contratto aziendale che prevede premi variabili collettivi, il 60,7% dichiara di aver effettivamente erogato un premio nel corso del 2023. Tale quota cresce al crescere della dimensione aziendale, passando dal 57,4% registrato per le piccole imprese, al 60,2% delle medie, al 79,5% per le grandi imprese.

Nel 2023 l’incidenza dei premi variabili collettivi sulla retribuzione annua complessiva è stata mediamente pari al 4,3% per operai e impiegati e al 3,8%.% tra i quadri. Nell’industria in senso stretto l’incidenza dei premi è mediamente più elevata che nei servizi e risulta particolarmente alta nelle imprese dell’industria oltre i 100 dipendenti: 5,5% per operai e impiegati e 4,5% per i quadri.

Iniziative di welfare presenti in più della metà delle imprese I risultati dell’indagine mostrano che oltre la metà (il 51,3%) delle imprese associate a Confindustria ha adottato iniziative di welfare, con la quota che sale al 57,0% nell’industria e si ferma al 43,7% nei servizi. La diffusione del welfare cresce con la dimensione aziendale: è maggiore nelle imprese con più di 100 addetti (78,7% la media complessiva, che arriva all’85,2% per quelle industriali), mentre è del 58,8% in quelle medie e del 40,9% in quelle con al massimo 15 addetti.

Il 51,3% delle imprese che sono stimate erogare welfare ai propri dipendenti può essere scomposto in relazione alla fonte istitutiva, ovvero come somma di quelle che lo erogano da contrattazione aziendale (14,4% del totale) e di quelle che invece lo erogano perché previsto da altre fonti, per esempio il CCNL o per iniziativa unilaterale del datore di lavoro. Questo secondo gruppo, per cui la fonte istitutiva del welfare esclude il contratto aziendale, è preponderante a prescindere dal settore e nelle imprese piccole e medie, mentre la contrattazione aziendale si conferma la fonte istitutiva privilegiata nelle grandi imprese (Figura D).

Con riferimento alle differenti modalità di erogazione del welfare previsto da contrattazione aziendale, nel 32,5% delle imprese il welfare è erogato solo a valle della conversione di un premio di risultato, mentre nel 20,8% dei casi il welfare è previsto esclusivamente in maniera svincolata dal premio di risultato; nel rimanente 46,7% (dunque, nella gran parte dei casi) le imprese prevedono entrambe le modalità (Figura E, pannello di destra).

Tra le imprese che hanno erogato premi variabili collettivi nel 2023, l’indagine ha rilevato che nel 40,1% dei casi almeno un lavoratore ha effettivamente convertito il premio in welfare, situazione più comune nell’industria (44,1%) che nei servizi (34,0%) e nelle imprese grandi (49,0%) più che nelle piccole (12,7%). In questi casi, circa un terzo dei lavoratori ha deciso di convertire, mediamente, il 67,1% del premio ricevuto.

Lavoro agile in una impresa su tre, specie per due-tre giorni a settimana Anche l’indagine di quest’anno ha rilevato il grado di diffusione del lavoro agile (o smart working) da parte delle imprese associate in due periodi distinti di tempo, ovvero prima della pandemia e nel 2023. Alle imprese che hanno utilizzato il lavoro agile, è stata inoltre chiesta l’intensità media di utilizzo, in termini di numero di dipendenti per giorni alla settimana (o al mese) di lavoro da remoto.

I risultati indicano che la quota di imprese che utilizzano lo smart working si è quasi quadruplicata, da 8,9% nel pre-pandemia a 32,6% nel 2023 (Figura F). Questa modalità di lavoro si conferma maggiormente diffusa nelle imprese dei servizi (38,5%) rispetto all’industria (28,2%), anche per la natura stessa dell’attività. In particolare, poi, la diffusione del lavoro agile è legata alla dimensione aziendale, essendo presente in meno di un quarto delle imprese piccole, con meno di 15 dipendenti (24,2%), in circa un terzo delle imprese medie, tra 16 e 99 dipendenti (35,5%), e in due terzi delle imprese grandi, con più di 100 dipendenti (66,6%).

Passando ad analizzare l’intensità di utilizzo del lavoro agile risulta che, nelle imprese in cui esso è previsto, oltre un terzo dei dipendenti non dirigenti ha utilizzato tale modalità di lavoro (34%), senza differenze sostanziali tra il dato dell’industria (33,8%) e quello dei servizi (34,2%). Più nello specifico, l’8,9% dei dipendenti lo ha utilizzato per al massimo 1 giorno alla settimana (fino a 4 giorni al mese), il 20,9% ha scelto tale modalità per 2-3 giorni a settimana (5-12 giorni al mese), e il 4,2% per oltre 3 giorni alla settimana (oltre 12 giorni al mese; Figura G).

Difficoltà di reperimento delle competenze per oltre due imprese su tre Nell’indagine di quest’anno, alle imprese è stato chiesto se riscontravano significative difficoltà di reperimento di personale nelle politiche di assunzione. Tra le imprese che avevano in corso ricerche di personale al momento della compilazione del questionario, il 69,8% ha riportato di aver riscontrato difficoltà.

La quota di imprese che dichiarano difficoltà è più elevata nell’industria (73,5%) che nei servizi (65,0%) e cresce con la dimensione aziendale, dal 64,8% nelle imprese piccole, al 72,8% in quelle medie e al 77,6% nelle grandi (Figura H).

Le maggiori problematiche emergono per le competenze tecniche (segnalate dal 69,2% delle imprese con difficoltà di reperimento) e per quelle manuali (47,2%). Meno diffuse le segnalazioni riguardanti le competenze trasversali (16,5%) e quelle manageriali (8,3%).

Per quanto riguarda, invece, gli ambiti aziendali, si registrano maggiori problemi nel reperire risorse con competenze funzionali alla transizione digitale, segnalate mediamente dal 66,3% delle imprese con difficoltà di reperimento, e in particolare dal 76,6% nei servizi (contro 58,4% nell’industria). Risultano meno diffuse le problematiche negli ambiti internazionalizzazione (32,5%) e green (15,1%), anche se per entrambe si rileva una maggiore diffusione in imprese grandi e industriali; Figura I).

Quasi i due terzi delle imprese che segnalano difficoltà di reperimento (64,3%) intraprende azioni per farvi fronte, concentrandosi soprattutto sulla formazione del personale attualmente in forza (59,7%). Da sottolineare, inoltre, che il 49,0% delle imprese ricorre a servizi esterni, come consulenze e collaborazioni, e che il 38,3% è intervenuta allargardo il bacino di ricerca in termini di aree geografiche o metodologie di recruitment. Infine, più di un quarto del totale delle imprese (28,5%) è coinvolto in programmi educativi sul territorio (ITS Academy, PCTO, tirocini curriculari, ecc.), oltre la metà (50,7%) tra quelle più grandi.

Formazione fondamentale in risposta alle difficoltà di reperimento delle competenze Ancora in tema di competenze, dall’indagine risulta che nel corso del 2023 ben oltre la metà delle imprese ha offerto ai propri dipendenti (non dirigenti) almeno un’attività di formazione diversa da quella obbligatoria, per una percentuale di dipendenti in formazione in queste imprese mediamente pari al 57,0%.

Come detto, la formazione dei dipendenti rappresenta una delle azioni principali messe in campo dalle imprese per affrontare la carenza di competenze sul mercato del lavoro. Tale evidenza è dimostrata anche dal fatto che, se nella media nazionale la quota di imprese che ha svolto attività di formazione nel 2023 è pari al 57,0%, la quota di imprese “formatrici” è sensibilmente più alta tra quelle che hanno riscontrato una qualche difficoltà di reperimento delle competenze (66,0%) rispetto a quelle che o non cercavano o non hanno riscontrato difficoltà (51,4%; Figura J). Ciò vale a prescindere dal settore o dalla dimensione aziendale, ma va tuttavia rilevato che la differenza tra le due quote è sensibilmente più alta nell’industria (dove è pari a 18 punti percentuali) e in particolare tra le piccole imprese industriali (21,6 punti percentuali).

Appendice: Le caratteristiche dell’Indagine annuale Confindustria sul lavoro

Edizione 2024

Questa nota esamina i risultati dell’Indagine Confindustria sul Lavoro del 2024 che, come in precedenti edizioni, è andata sul campo nei primi mesi dell’anno. La somministrazione dei questionari da parte delle Associazioni del Sistema Confindustria alle proprie imprese associate ha avuto inizio il 12 febbraio 2024, con un termine inizialmente fissato per il 29 marzo, poi prorogato al 19 aprile.

Il campione di quest’anno è costituito da 3.742 aziende. Complessivamente a fine 2023 le imprese che compongono il campione occupavano 813.366 lavoratori dipendenti a livello nazionale.

Come in precedenti edizioni, il questionario di quest’anno include domande relative agli orari e alle assenze dal lavoro, alla struttura e alla dinamica della manodopera occupata con diverse tipologie contrattuali e alle politiche aziendali, con particolare riferimento alla contrattazione aziendale, alle competenze di difficile reperimento e al capitale umano.

Nel questionario è stato confermato anche l’approfondimento relativo allo stato e ai giudizi delle imprese sull’utilizzo del lavoro agile.

Nella presentazione dei risultati dell’indagine, le imprese del campione sono classificate per comparto sulla base del CCNL applicato (Tabella A1) e per dimensione aziendale sulla base del numero di occupati alle dipendenze a dicembre 2023. Dettagli sulla composizione del campione per comparto e numero di addetti sono riportati nella Tabella A2.

In questa nota (come in quelle elaborate a commento di edizioni passate dell’Indagine Confindustria sul lavoro) i risultati medi a livello nazionale sono ponderati sulla base della distribuzione (per 11 comparti e 3 classi dimensionali) degli occupati nel totale delle imprese associate a Confindustria.

Gli orari e le assenze dal lavoro: definizioni e metodologia di calcolo

I giorni lavorabili sono calcolati sottraendo ai 365 giorni dell’anno:

  • i sabati e le domeniche (105 giorni) e le festività infrasettimanali nel 2023 (10 giorni);
  • il dato aziendale dei giorni di ferie, quelli di P.A.R. (ex festività e riduzione orario di lavoro) e quelli di permesso per banca ore e conto ore.

Le ore lavorabili annue sono calcolate:

  • moltiplicando i giorni lavorabili per l’orario settimanale normale del personale a tempo pieno al netto delle pause retribuite, diviso per cinque;
  • sottraendo le ore pro-capite di Cassa Integrazione Guadagni effettuate dal personale.

Il tasso di assenteismo è calcolato come il rapporto percentuale tra le ore di assenza e le ore lavorabili, ed è disponibile per sesso, qualifica e tipologia di assenza.

I risultati si basano sulle risposte fornite dalle 3.469 aziende del campione che hanno compilato la sezione del questionario relativa agli orari e alle assenze dal lavoro.

Allegati

Nota Centro Studi Confindustria Indagine sul lavoro 2024

Tabelle di riepilogo Indagine Confindustria Lavoro 2024

Travel security, mondo inesplorato

Travel security, mondo inesplorato

di Carmelo Burgio

Le aziende che svolgono commercio e attività d’impresa nel mondo, spesso non arrestano i loro tentativi d’espandere il proprio giro d’affari di fronte a situazioni di rischio dovuti a guerre, conflitti locali, situazioni d’instabilità interna. Per far ciò hanno fatto ricorso all’invio di proprio personale addetto alle vendite, alle pubbliche relazioni, o con funzioni tecniche e di progettazione, non certo in possesso di sensibilità al particolare scenario o addestramento alle tecniche militari di scampo, evasione e fuga.

Le grandi imprese in genere provvedevano a costituire una struttura in grado di prender contatti con le istituzioni locali, preferibilmente con l’aiuto del nostro ministero degli esteri, e anche con warlords o soggetti locali capaci anche a tutolo privato a garantire una cornice di sicurezza. Le aziende meno articolate, o con minori disponibilità, in qualche caso non hanno fatto assolutamente nulla, nel tradizionale affidarsi allo stellone italico, o hanno fatto ricorso all’arte dell’arrangiarsi, altrettanto diffusa.
Un improvviso mutamento l’ha generato la “sentenza Bonatti”.
Nel 2016 il rapimento di 4 tecnici italiani in Libia si concludeva con la morte di due di essi. In questo caso il giudice ha riconosciuto la responsabilità dei vertici della società come datori di lavoro, per non aver “preparato” il proprio personale al tipo di scenario. Non si accusava la ditta di non aver addestrato i propri uomini che, non essendo dei “Rambos”, avevano dovuto soccombere, ma di non averli proprio “preparati”. Non esisteva documentazione afferente lo svolgimento di specifici corsi, prima di essere inviati in quello scenario a rischio, ciò è stato sufficiente per una scarica di condanne.

L’Italia, paesotto – qui tale va definito – ove spesso è importante solo “mettere a posto la pratica”, ha visto risolvere immediatamente la problematica. Il personale che andava all’estero era comunque motivato dall’aspetto salariale, di norma invitante. Bastava a questo punto, prima della partenza, farlo partecipare a qualche conferenza, fornirgli qualche documento a carattere informativo, proiettargli filmati e slides in numero adeguato, e – soprattutto – fargli firmare “per presa visione” una semplice dichiarazione, e sapeva tutto di “Travel Security”.

Le grandi aziende, con più mezzi e diverso peso, hanno per fortuna continuato ad operare come fatto in precedenza, mettendo da parte le dichiarazioni firmate di chi stava per partire.
Quelle piccoline, purtroppo, di massima … pure. Un corso di travel security costa, e ancor di più prendere i dovuti contattati in area di crisi, comportanti a volte la necessità di “ungere” qualcuno per fruire di sicurezza degna di tale nome.
Ho trattato il problema per ragioni professionali, e per quel che ho rilevato resta la tendenza a cercare di costruire un quadro burocratico a prova di responsabilità penale. Che poi si intenda veramente incrementare la cornice di sicurezza in cui opera il nostro inviato, è un altro paio di maniche.

I grandi soggetti come – per esempio – l’ENI, spendono e costruiscono una “bolla di sicurezza” di spessore, i piccoli proseguono a farsi venire i crampi per incrociare scaramanticamente le dita.
Per questo ritengo utile per il nostro “inviato all’inferno”, prima di firmare quanto di dovere per sollevare le responsabilità dei propri vertici, formarsi una propria specifica coscienza alla “Travel Security”. Non c’è molto di scritto in giro, per questo ritengo interessante il lavoro dell’ing. Fabiano Manzan, “Italian Packaging Contractors” di recente dato alle stampe. Viaggiatore d’impresa per società che piazzano sul mercato internazionale macchinari per il confezionamento, anche nei posti più caldi, ha tentato di rendere fruibile, in italiano e in inglese, le sue esperienze.

Strano e vivace resoconto in cui all’iconico “veni – vidi – vici” di giuliocesariana memoria si sostituisce un sornione “mi han mandato – ho visto – non so come sia tornato”. E gli errori sono quanto di meglio sia – se si ha tempo per riunirli, teorizzarli in sistema e raccontarli – per trovare “best practices” da proporre per limare il margine fra la buona sorte e il successo pianificato. Fino a capire che il miglior modo per uscire dai guai, sia prevenire di scivolarci dentro fino ai capelli, adottando adeguate contromisure.
Lungi dal voler pubblicizzare, mi pare corretto che, seguendo le problematiche di chi è impegnato nella vigilanza e nella sicurezza private, io dedichi attenzione a chi voglia migliorare la preparazione del singolo.
Del resto nella pratica addestrativa del soldato e del poliziotto, allo sforzo dell’istituzione perché apprenda tecniche e tattiche, non va disgiunto l’impegno di ciascun allievo per arricchire la propria preparazione attraverso letture, allenamento, studio, coerenti con il messaggio formativo-addestrativo che gli viene somministrato.

Carmelo Burgio

Fonte: Cybernaua.it