Confindustria: audizione alla Camera dei Deputati sul salario minimo

Francesca Mariotti, Direttore Generale Confindustria, è intervenuta in audizione presso la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati sulle proposte di legge in materia di giusta retribuzione e salario minimo.

L’introduzione di un salario minimo legale nel nostro Paese è certamente uno dei temi più significativi del dibattito sul mercato del lavoro degli ultimi anni, su cui sono senz’altro utili occasioni di confronto.

La regolazione dei minimi salariali costituisce un meccanismo fondamentale nel funzionamento del mercato del lavoro. Questa funzione è storicamente svolta, in Italia, dai contratti collettivi nazionali di categoria. La capacità dei contratti collettivi di regolare la generalità dei rapporti di lavoro relativi è andata progressivamente diminuendo.

Specie con la crisi economica, si sono diffuse, in alcuni settori, percentuali non trascurabili di lavoratori con un salario al di sotto di quello stabilito dai contratti firmati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Per questo l’esigenza di una discussione sull’introduzione del salario minimo è comprensibile e non ci vede contrari pregiudizialmente.

Tuttavia, sebbene l’introduzione di un salario minimo legale, in astratto, potrebbe – a ben determinate

condizioni – contribuire a ridurre l’area delle situazioni anomale ora richiamate, resta che, a ben vedere, il vero problema del rispetto di un salario minimo adeguato prescinde dalla fonte che ne determina la misura.

In altre parole, il problema vero, almeno nel nostro Paese, sembra essere piuttosto quello degli strumenti volti a garantire l’effettivo rispetto del livello retributivo minimo stesso, piuttosto che quello della fonte (legge o contratto collettivo), che determina la misura della retribuzione minima.

In questo senso, l’introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe, di per sé, il problema di adeguare i salari più bassi.

Questo risultato, esattamente come oggi accade per i livelli salariali definiti dalla contrattazione collettiva, richiede invece uno sforzo maggiore per il rispetto delle regole.

Anzitutto attraverso il potenziamento dell’attività ispettiva che rappresenta il primo presidio del rispetto delle regole del lavoro, anche per quanto riguarda i livelli retributivi minimi.

Si pone anche una questione che attiene alla selezione della qualità della contrattazione collettiva che, se affrontato e risolto correttamente, aiuterebbe senz’altro, a nostro avviso, a contribuire a risolvere la questione del salario minimo adeguato.

Resta, comunque, centrale il tema del rapporto tra l’eventuale introduzione di un salario minimo legale e l’attuale sistema della contrattazione collettiva esistente.

È evidente infatti che, nel nostro Paese, la mancata adozione di un salario minimo legale è da mettere in correlazione proprio all’altissima diffusione della contrattazione collettiva che, storicamente, si è fatta carico di individuare i livelli salariali minimi per ciascuna categoria di lavoratori.

Inoltre, va anche ricordato che la Direttiva europea relativa a salari minimi adeguati afferma espressamente, che i salari medi negli Stati membri ove la regolazione del salario è affidata esclusivamente alla contrattazione collettiva “sono tra i più alti nell’Unione europea”.

E, sempre con riferimento alla direttiva, va ricordato che il nostro Paese è considerato, complessivamente, già in linea con il tasso di copertura della contrattazione collettiva.

Pertanto, a ben guardare, si può sostenere che, in qualche misura, un salario minimo di riferimento, nel nostro ordinamento, è già vigente.

Dunque, vi è la conferma che nel nostro ordinamento il vero problema, è semmai quello di definire correttamente il rapporto tra legge e contrattazione.

Un salario minimo “universale”, che non tenesse specificamente conto del sistema della contrattazione collettiva vigente potrebbe ingenerare nelle imprese la tentazione di “sciogliersi” dal complesso di obblighi che derivano dal rispetto dei contratti collettivi, a favore di una regolamentazione unilaterale del rapporto di lavoro che troverebbe, però, nel rispetto del salario minimo, la sua tutela fondamentale.  Dobbiamo evitare in Italia il c.d. fenomeno della “fuga” dal contratto collettivo che si sta registrando, già da tempo in atto in vari paesi europei, che hanno adottato il sistema del salario minimo legale, pur in presenza di una consolidata tradizione di contrattazione collettiva.

È opportuno, infatti, ricordare che il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei CCNL è ben più esteso del mero trattamento economico minimo.

Inoltre, è appena il caso di ricordare che la flessibilità e adattabilità che assicura l’intervento dell’autonomia negoziale collettiva, seppur connotata anch’essa da alcuni limiti, è certamente più confacente ed utile per interpretare, nel modo più corretto, le differenze tra settori economici e tra distinte mansioni, rispetto alla “rigidità” di una disciplina legislativa.

Registriamo, pertanto, con favore che, in linea di massima, tutte le proposte di legge in esame finiscono per optare, in qualche modo, per un “demando” alla contrattazione collettiva.

Ma le soluzioni tecniche che, poi, seguono a questa positiva impostazione di fondo meritano di essere attentamente valutate perché generano una serie di questioni di grande rilievo che, per come declinate e risolte nei vari progetti di legge in esame, suscitano perplessità e riserve di varia natura.

Riteniamo necessario distinguere tra l’applicazione dei minimi retributivi, così come previsti dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nella categoria, ed il trattamento economico complessivo, alla cui determinazione concorrono, invece, tutte le voci retributive disciplinate dal contratto.

Mantenere ferma questa distinzione è centrale per impostare correttamente la questione del salario minimo. Ed infatti “confondere” il trattamento minimo con il trattamento economico complessivo, significa introdurre un elemento di forte distorsione.

Ed infatti fissare per legge un valore economico finisce per alterare il libero ed autonomo confronto negoziale tra le parti contraenti, inserendo un elemento distorsivo che, non a caso, la direttiva europea non prevede in alcun modo, perché distingue nettamente (e coerentemente) tra salario minimo fissato per legge e salario individuato dalla contrattazione collettiva, non prevedendo, a ragione, alcun tipo di “commistione” tra queste due distinte fonti di regolazione del salario.

Semmai il vero problema è quello di individuare criteri obiettivi che valgano a selezionare la contrattazione collettiva posta in essere da qualificati rappresentanti degli interessi collettivi, rispetto all’ormai incontenibile numero di contratti collettivi sottoscritti da soggetti poco attendibili e scarsamente rappresentativi.

Tutti i progetti di legge in esame utilizzano, sotto più profili, la tecnica del rinvio al “contratto collettivo nazionale del settore stipulato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Con tutta evidenza ciò comporta la soluzione dell’oramai annosa questione della misurazione della rappresentanza, sia delle organizzazioni sindacali dei lavoratori che delle organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro.

Per affidare efficacemente la determinazione del salario minimo alla contrattazione collettiva è, infatti, indispensabile individuare dei criteri che selezionino, in modo oggettivo e verificabile, il “contratto di riferimento”, per ogni settore, il che comporta la necessità di individuare le organizzazioni di rappresentanza e dei datori di lavoro e dei lavoratori che siano effettivamente rappresentative.

Non v’è dubbio, infatti, che occorre porre un serio argine al dilagante fenomeno dei c.d. “contratti pirata” (ossia dei contratti sottoscritti da organizzazioni del tutto prive o scarsamente titolari di un effettivo potere rappresentativo) che costituiscono senz’altro un ostacolo alla individuazione di una retribuzione oraria minima adeguata in tutti i settori.

In altre parole, nella nostra visione, la questione della determinazione del salario minimo per via della contrattazione collettiva e la questione della misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali e datoriali costituiscono un unicum inscindibile.

Quanto alla misurazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori un’eventuale disposizione di legge ben potrebbe fare riferimento agli accordi interconfederali sottoscritti in materia in tutti i maggiori settori produttivi ma, in primis, da Confindustria.

Per quanto attiene, invece, alla misurazione della rappresentanza datoriale occorrerebbe individuare altrettanti parametri oggettivi e questo si potrebbe attuare o con un accordo tra le associazioni datoriali o per legge.

Sin qui, però, i tentativi promossi da Confindustria, anche in sede CNEL, di giungere ad una condivisione di criteri per la misurazione della rappresentanza datoriale non hanno dato alcun esito, per l’estrema distanza delle opinioni in merito tra le stesse organizzazioni datoriali.

Prendere in considerazione il numero di imprese associate, in relazione al numero complessivo delle imprese, costituisce un parametro fortemente distorsivo e incongruo.

Viceversa, a nostro avviso, il primo criterio che andrebbe utilizzato, ma che appare il più obiettivo in termini di “effettività” della rappresentanza, è quello di verificare il numero di rapporti di lavoro regolati, nel settore, da un determinato contratto collettivo sottoscritto da una determinata rappresentanza datoriale.

Prima di determinare qualsiasi criterio di misurazione, è indispensabile definire il perimetro, campo di applicazione di quel criterio, ossia, in parole povere, che cosa si vuole misurare.

La soluzione della questione andrebbe affidata ad una autoregolamentazione delle parti ossia ad un grande accordo interconfederale che coinvolga rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori finalizzato a definire convenzionalmente (e a razionalizzare) i campi di applicazione dei contratti nei vari settori.

Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, nel c.d. “Patto per la fabbrica” del 9 marzo 2018, avevano già individuato una soluzione a questa questione.

Dunque, una volta definito il “perimetro”, andrebbe misurato, all’interno di quello, l’effettivo “peso” della rappresentanza e delle organizzazioni sindacali e delle organizzazioni datoriali.

Si riscontra che pur non essendo associate, moltissime imprese scelgono liberamente di avvalersi del contratto nazionale che una determinata associazione datoriale ha sottoscritto: il che significa che quel contratto, più di altri, interpreta e soddisfa gli interessi di quelle imprese nel risolvere la questione della regolamentazione dei rapporti di lavoro.

Si realizza, in tal modo, inconfutabilmente, una rappresentanza “di fatto”, derivante da una libera scelta dell’impresa.

Se quello stesso contratto risultasse essere sottoscritto anche dalle organizzazioni di rappresentanza di lavoratori maggiormente rappresentative, è del tutto evidente che i trattamenti minimi fissati in quel contratto dovrebbero costituire il minimo di riferimento per individuare il salario minimo orario dovuto in quel settore produttivo, a prescindere dalla natura dell’impresa, se industriale, artigiana, cooperativa o altro. Il salario minimo dei contratti collettivi di riferimento dovrebbe diventare quindi il salario minimo legale per ogni settore.

Ma se le organizzazioni datoriali non giungessero ad un accordo sui criteri di selezione del loro “grado” di rappresentanza, allora, sul punto, potrebbe essere necessario l’intervento del legislatore.

E’ necessario quindi un disegno complessivo, Confindustria, il 9 marzo del 2018, ha sottoscritto con Cgil, Cisl, Uil il già citato “Patto per la fabbrica” dove si propone che il contratto collettivo nazionale di categoria dovrà individuare il trattamento economico minimo (TEM) e il trattamento economico complessivo (TEC).

L’applicazione del TEM soddisfa, con ogni evidenza, l’esigenza evidenziata dalla Direttiva, cioè l’esigenza di un salario minino.

Il trattamento economico complessivo (TEC) sarà poi costituito dal trattamento economico minimo (TEM), e da tutti quei trattamenti economici – anche le eventuali forme di welfare – che il contratto collettivo nazionale di categoria qualificherà come “comuni a tutti i lavoratori del settore”, a prescindere dal livello di contrattazione a cui il medesimo contratto collettivo nazionale di categoria ne affiderà la disciplina.

Riteniamo che questo sistema “complessivo”, concordato con le Organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nei nostri settori (ma che hanno, peraltro, condiviso l’opportunità di intraprendere un procedimento di verifica obiettivo della loro “forza rappresentativa”, tuttora in corso, in attuazione dell’accordo interconfederale del 2014), costituisca il quadro regolatorio più efficace per garantire un salario minimo orario adeguato.

Fonte: Condindustria

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