Istat: pubblicato il rapporto sulla competitività dei settori produttivi 2022

La decima edizione del Rapporto dà conto della fase di ripresa economica del 2021, seguita alla profondissima contrazione dell’attività provocata dalla prima fase pandemica.

Sul piano macroeconomico, i dati internazionali relativi al 2021 testimoniano la diffusione e l’intensità della ripresa, con una dinamica di espansione del Pil vigorosa in Cina, Stati Uniti e Area euro.

L’andamento in corso d’anno, tuttavia, ha risentito via via dell’emergere di difficoltà legate alle interruzioni nelle catene di fornitura industriali, a ulteriori misure di contenimento sanitario e a una veloce diffusione delle pressioni inflazionistiche generate dalla salita delle quotazioni delle materie prime.

Tra le maggiori economie dell’Area euro, l’entità del recupero del nostro Paese è seconda solo a quella francese e più forte di quelle di Spagna e Germania. Alla fine dell’anno il Pil è quasi tornato al livello dell’ultimo trimestre del 2019, grazie al contributo di consumi e investimenti.

La buona performance dell’economia italiana nel 2021 è stata sostenuta dalla dinamica dell’export, superiore a quelle dell’Area dell’euro nel suo insieme e di Germania e Francia, sebbene inferiore alla dinamica della Spagna. Ne è conseguita, in generale, una buona tenuta delle quote di mercato, aumentate nei principali paesi europei.

Nel 2021 il sistema produttivo italiano non sembra aver perso competitività nei confronti dei principali partner europei. Il costo orario del lavoro è aumentato a ritmi moderati, con un andamento più favorevole per l’Italia rispetto a Spagna e, soprattutto, a Francia e Germania.

I prezzi alla produzione sono saliti in misura pressoché uniforme. La crescita dei costi si è trasferita solo in parte sull’output, con l’effetto di una diminuzione del mark-up, più accentuata nei servizi, dove le imprese incontrano maggiori difficoltà nel trasferire l’aumento dei costi, vincolate dal più lento recupero della domanda.

Sul mercato del lavoro italiano il recupero è stato solo parziale: la crescita degli occupati interni (che includono i lavoratori in Cig) non ha compensato interamente la caduta del 2020.Tale dinamica ha risentito della flessione dell’occupazione indipendente, che ha proseguito una tendenza in atto dal 2008.

La ripresa è avvenuta soprattutto in termini di crescita dell’input orario, in particolare nell’industria in senso stretto; tuttavia, a fine 2021 il monte-ore complessivo rimane ancora inferiore rispetto al 2019.

Segnali positivi sono giunti da altri indicatori quali le posizioni lavorative e i posti di lavoro vacanti segnalati dalle imprese, aumentati sia nell’industria in senso stretto sia nei servizi di mercato.

Questi sviluppi sembrano segnalare il possibile accentuarsi di fenomeni di mismatch fra domanda e offerta. Alla vigilia della crisi internazionale innescata dall’aggressione russa all’Ucraina, le prospettive dell’economia italiana per il 2022 vedevano quindi il prevalere di segnali tipici di una espansione ciclica potenzialmente duratura. Motivi di ottimismo erano legati al ruolo degli investimenti, sia privati sia pubblici (questi ultimi sostenuti dai fondi del Pnrr), all’elevata disponibilità di risparmi nei portafogli
delle famiglie, alle indicazioni del commercio con l’estero, nonostante l’emergere già nel corso del 2021 di elementi di incertezza legati a tensioni inflazionistiche e difficoltà nella logistica.


D’altro canto, le spinte sui prezzi hanno trovato ulteriore alimento nei nuovi rincari delle materie prime innescati dal conflitto. Nei prossimi mesi i maggiori rischi per l’evoluzione ciclica sono quindi legati alla risalita dell’inflazione. L’entità del suo impatto su redditi, domanda aggregata e competitività delle imprese dipenderà dall’intensità e dalla tempistica con cui gli impulsi si trasmetteranno ai prezzi finali, in un processo sul quale influirà in maniera cruciale l’eventuale innescarsi di una spirale prezzi-salari.

La ripresa del 2021 ha coinvolto in diversa misura i settori produttivi, risultando più marcata nelle attività che nel 2020 erano state maggiormente colpite dalle restrizioni connesse all’emergenza sanitaria: l’indicatore sintetico di competitività (ISCo) segnala un recupero più accentuato per prodotti petroliferi, tessile e abbigliamento, stampa e un peggioramento di competitività assoluta e relativa per gli autoveicoli e per la riparazione e installazione di macchine e apparecchiature.

Anche nel terziario la performance migliore è emersa nei comparti che avevano subito di più le conseguenze della crisi pandemica, come testimoniato dai marcati aumenti di fatturato della filiera del turismo. L’entità della caduta registrata nel 2020, tuttavia, era stata così ampia che nessuno di questi settori è riuscito a recuperare i livelli pre-crisi.


La dinamica dell’export manifatturiero in valore ha determinato, per la grande maggioranza dei comparti, il superamento dei livelli pre-pandemici, in particolare per metallurgia, chimica, altri mezzi di trasporto, prodotti alimentari. Il recupero non si è invece concretizzato per gli autoveicoli e per la filiera del tessile, abbigliamento e pelli. Questa evoluzione si è riflessa in una modifica, in alcuni casi significativa, del peso relativo sull’export settoriale di sei importanti mercati di destinazione (Germania,
Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Russia e Cina).

Anche per le importazioni la crescita del 2021 ha portato molti settori a recuperare i valori pre-crisi, con rimbalzi più accentuati nel caso della chimica, della metallurgia e degli apparecchi elettrici.


Le multinazionali ricoprono un ruolo sempre più rilevante nelle dinamiche dell’interscambio e spiegano circa tre quarti dell’export del sistema produttivo. Nel Rapporto si valuta la dinamica del commercio estero nel 2020-2021 delle imprese che nel 2019 (ultimo dato disponibile) appartenevano a gruppi multinazionali: si mostra come, negli anni interessati dalla crisi, il peso di queste unità potrebbe essere ulteriormente aumentato.

Ciò assume rilievo alla luce di recenti analisi che hanno evidenziato come la crisi generata dall’emergenza sanitaria abbia avuto un impatto meno accentuato proprio sulle imprese caratterizzate da forme più evolute di internazionalizzazione.

Il ruolo delle multinazionali è rilevante anche in termini di destinazione dei flussi: ad esempio, nel 2019, un quarto circa delle vendite di prodotti manifatturieri in Germania era attivato da controllanti tedesche; un quarto del totale dell’export italiano della metallurgia era destinato in Germania, ma quasi la metà di questo si doveva a imprese a controllo tedesco.

Casi simili, con incidenza a volte maggiore, sono riscontrati per l’export in Germania di pelli, apparecchiature elettriche, alimentari e bevande, così come per le vendite di mezzi di trasporto (esclusi gli autoveicoli) verso gli Stati Uniti, generate per circa la metà da imprese a controllo statunitense. Queste tendenze rappresentano un elemento potenzialmente rilevante nell’analisi dei mercati di sbocco delle nostre esportazioni e, più in generale, nella valutazione dei punti di forza e debolezza della competitività estera dell’Italia: una elevata incidenza di questi flussi può, tra l’altro, determinare una minore efficacia delle politiche nazionali di stimolo all’internazionalizzazione.


Una indagine ad hoc presso il campione di imprese di manifattura e servizi che partecipano alla rilevazione mensile sui climi di fiducia ha permesso di valutare se, e in quale misura, lo shock pandemico abbia ostacolato il funzionamento delle catene internazionali del valore.


Oltre la metà delle unità internazionalizzate ha dichiarato problemi di approvvigionamento e vendita, senza distinzioni di rilievo tra classi dimensionali, ma con una elevata eterogeneità settoriale (la diffusione è maggiore nei settori di apparecchiature elettriche, elettronica, macchinari, gomma e plastica). Per più di un terzo delle imprese, la natura di tali difficoltà è percepita come temporanea, tanto da non richiedere alcuna strategia di reazione; un ulteriore terzo ha invece modificato sia i volumi acquistati sia il numero dei fornitori, in particolare nei settori alimentare, automotive, chimica e farmaceutica.


Tuttavia, tali cambiamenti hanno riguardato in misura molto marginale la composizione geografica sia dell’import sia dell’export. Anche i fenomeni di accorciamento delle catene del valore e di rientro di parte della produzione precedentemente delocalizzata all’estero interessano una quota minoritaria delle unità produttive del nostro Paese.


Dagli investimenti legati al Pnrr ci si attende un importante ruolo di traino della ripresa dei settori produttivi. L’esercizio di simulazione degli effetti degli investimenti che fanno capo al Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims) evidenzia come, dei 38 miliardi di valore aggiunto complessivamente attivato dalle misure considerate, 14,1 miliardi attengano al comparto delle costruzioni, 8,4 agli altri servizi di mercato e 6,2 alla manifattura.

Le costruzioni, a loro volta, generano l’ammontare di gran lunga più elevato di valore aggiunto in tutto il sistema, seguiti da quelli in ricerca e sviluppo e in servizi informatici.

Questi tre comparti sono anche quelli nei quali gli investimenti del piano hanno un “rendimento” maggiore: 77 centesimi di valore aggiunto generati da ogni euro investito nelle costruzioni, 88 centesimi per euro investito in ricerca e sviluppo, 79 centesimi per euro investito nell’informatica.


Focalizzandosi su estensione e velocità di trasmissione degli stimoli al sistema economico, si osserva che oltre due terzi degli investimenti sono concentrati nei settori a trasmissione “gerarchica”, caratterizzati da una diffusione estesa ma lenta dello shock. Poco meno del 5% del totale, invece, è destinato a comparti a trasmissione “diffusa”, che diffondono gli impulsi su ampia scala e velocemente.


Circa il 10% degli investimenti qui considerati è rivolto a settori a trasmissione “selettiva”, ovvero veloce ma con estensione limitata. Poco più del 16% dell’intervento, infine, si concentra su attività a trasmissione “debole”, cioè lenta e circoscritta. Su tali basi, il piano di investimenti previsto dal Mims nell’ambito del Pnrr sembra prospettare una propagazione dello stimolo non rapida, ma estesa a gran parte del sistema economico, con possibilità di spillover significativi.

L’analisi microeconomica fa ampio uso delle informazioni raccolte attraverso le tre indagini Istat su “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria COVID-19” (d’ora in avanti indicate come “COVID1”, “COVID2”, “COVID3”), rivolta alle unità produttive con almeno 3 addetti.


Emerge il forte miglioramento del 2021 e la diffusione della ripresa, che tuttavia non esclude il perdurare di situazioni di difficoltà, con quasi un quarto delle imprese che segnalano di avere registrato nella seconda metà dell’anno una riduzione del fatturato superiore al 10% rispetto allo stesso periodo del 2020.

Nella percezione delle imprese, il sostegno all’attività nella prima parte del 2022 sarebbe venuto dalla crescita della domanda interna mentre le misure del Pnrr costituirebbero un elemento rilevante per un insieme minoritario di imprese, con picchi elevati, tuttavia, nei settori più direttamente interessati dagli investimenti. Se da un lato la ripresa ciclica ha determinato, alla fine del 2021, una forte diminuzione della quota di imprese che segnalavano una grave insufficienza della domanda interna e carenze di
liquidità, dall’altro sono molto aumentate le criticità relative all’approvvigionamento di materie prime e dei beni intermedi.

Anche durante la crisi, le imprese con forme più evolute di internazionalizzazione hanno registrato le performance migliori sui mercati esteri: considerando la dinamica dell’export tra il 2019 e il 2021 di quelle che nel 2019 avevano relazioni con l’estero, emerge una flessione delle vendite per le imprese “solo esportatrici” mentre si è registrato un incremento per le “Global” (imprese che esportano in almeno 5 aree extra-europee), le “Two-way traders” (imprese che importano ed esportano) e le multinazionali a controllo italiano ed estero.

La disponibilità di dati rilevati attraverso le indagini COVID in tre distinti momenti del biennio 2020- 2021 consente, inoltre, di analizzare in dettaglio i percorsi seguiti dalle imprese per reagire alle conseguenze della crisi.


Si evidenziano tre diversi “sentieri di attraversamento”, ciascuno dei quali caratterizzato da diverse combinazioni di scelte in termini di strategie e di decisioni di investimento. Il primo sentiero (“sofferenza reattiva”) accomuna le imprese (circa un terzo del totale) che sono state colpite duramente dall’emergenza sanitaria ma hanno poi mostrato capacità di elaborare strategie di reazione, inizialmente difensive e poi più espansive. Nella prima fase della crisi queste unità hanno riorganizzato i processi produttivi e rivisto le catene di fornitura, anche riducendo il personale; nel 2021 hanno espresso un più deciso orientamento verso l’innovazione, l’attivazione di relazioni produttive interaziendali, investimenti in tecnologie 4.0 e in capitale umano.

Al secondo sentiero (“resistenza statica”) sono associate le imprese che hanno subito gli effetti della crisi in misura relativamente lieve e, di conseguenza, non hanno attuato specifiche strategie di reazione: un terzo delle imprese che hanno seguito questo sentiero dichiara di non essere stato toccato dalla crisi. Le loro intenzioni di investimento nel corso del 2021 (comunque limitate a un quarto delle unità) sono orientate a spese in tipologie relativamente standardizzate e poco innovative di digitalizzazione e capitale umano.


Il terzo sentiero (“resilienza di successo”) è caratterizzato dalla capacità di reagire in modo tempestivo ed efficace agli effetti negativi della prima fase della crisi, con strategie tendenzialmente espansive: adozione di tecnologie 4.0 per riorganizzare i processi, innovazione di prodotto e miglioramento del capitale umano. Tra queste imprese la quota di chi intendeva investire nel semestre successivo all’indagine è arrivata a coinvolgere, a fine 2021, il 70% del totale.


La crisi ha modificato la composizione delle forme di finanziamento delle imprese. Nella prima fase, il credito bancario, anche per effetto delle misure di sostegno pubblico, ha potuto in larga misura sostituirsi all’autofinanziamento. Successivamente, con il miglioramento del ciclo, si osserva un significativo aumento della quota di imprese che dichiarano di non aver bisogno di alcuno strumento; tra chi vi ha fatto ricorso, l’utilizzo dell’attivo costituisce la scelta privilegiata con maggiore frequenza dalle imprese.


Un esercizio di stima mostra la relazione tra la struttura di finanziamento durante l’emergenza (marzo/novembre 2020) e il grado di solidità percepito dalle imprese per il primo semestre 2022. I risultati confermano un’evidenza già emersa in precedenti occasioni, secondo cui durante la crisi il ricorso a più strumenti di finanziamento sia motivato prevalentemente dalla ricerca di una copertura più vasta possibile nei confronti del rischio operativo generato dalla crisi di liquidità, a differenza di quanto osservato in periodi più “ordinari”, quando tale scelta riflette invece la capacità di gestione finanziaria e l’esigenza di risorse per attuare strategie complesse. Questo tipo di reazione sembra indipendente dai risultati economici precedenti la crisi.

Per quanto riguarda il ruolo della crisi sulla propensione al cambiamento tecnologico delle imprese, tra marzo 2020 e novembre 2021 emerge un lieve calo di interesse verso gli investimenti nella qualità della connessione Internet e nell’adozione di software gestionali; al contrario, si osserva una crescita di attenzione per la sicurezza informatica e per due aree applicative chiave di questi anni: le tecnologie cloud e quelle 4.0, soprattutto per le imprese di media dimensione (50-249 addetti).

Per valutare come questi aspetti possano ripercuotersi sulle prospettive di crescita delle imprese nei prossimi mesi, i risultati di un esercizio di stima mostrano come le tecnologie 4.0 tendano a favorire maggiormente la capacità di crescita delle imprese rispetto a quella di resistere a eventuali shock esogeni.

Le applicazioni cloud e i software gestionali svolgono un ruolo essenziale di supporto alla digitalizzazione, ma risultano poco significativi in termini di probabilità di evoluzione positiva della situazione aziendale quando non sono oggetto di investimenti su base continuativa.

Gli investimenti in sicurezza informatica hanno sempre effetti positivi, rappresentando una condizione essenziale per livelli crescenti di digitalizzazione dei processi aziendali. Infine, gli investimenti nella qualità della connessione Internet sono associati a solidità e a crescita di base produttiva solo se elemento costante della strategia aziendale. Se discontinui, appaiono ininfluenti o associati piuttosto a fenomeni di mancato sviluppo dell’impresa.

Infine, un importante aspetto relativo alla eterogeneità della ripresa economica riguarda la sua diffusione a livello territoriale. In tale prospettiva, la specializzazione settoriale dei territori può avere determinato forti effetti sulla loro capacità di recupero.

Tra i comparti industriali che hanno registrato una performance più brillante, la meccanica presenta un’incidenza occupazionale elevata nelle regioni settentrionali (Piemonte, Lombardia, Veneto, FriuliVenezia-Giulia, Emilia-Romagna); al contrario, le costruzioni assorbono quote di occupazione superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno. Quest’ultima area appare inoltre
diffusamente specializzata nelle attività di commercio-ristorazione, nonostante vi siano casi di elevata incidenza occupazionale in questi comparti anche in Liguria, Valle d’Aosta e Provincia autonoma di Bolzano.


Nelle attività di informazione e comunicazione, invece, la specializzazione supera la media nazionale solo in quattro regioni, tre al Nord (Piemonte, Lombardia, Provincia autonoma di Trento) e una al centro (Lazio).

Riguardo ai settori che nel 2021 hanno evidenziato una performance meno positiva, il Centro-sud spicca per una specializzazione tendenzialmente più elevata nelle attività culturali e sportive e in quelle della logistica. Nei servizi legati al turismo la specializzazione ha invece una diffusione su tutto il territorio nazionale.

Un elemento di potenziale svantaggio per le aree meridionali, soprattutto in una prospettiva di lungo periodo, è costituito da una specializzazione in comparti con un contenuto tecnologico e di conoscenza tendenzialmente inferiore a quelli nei quali risultano più specializzate le aree settentrionali.

A fine 2021 la quota di imprese e di addetti “a rischio” si è notevolmente ridotta rispetto a un anno prima anche se in tre regioni – Lazio, Molise e Calabria – oltre un quarto delle imprese è ancora a rischio “alto” o “medio alto”. In tutte le regioni emerge però un generale spostamento verso classi di rischio inferiore. Nei casi in cui il passaggio è stato verso classi di rischio superiori, in larghissima maggioranza si è trattato di spostamenti dalla classe di rischio “basso” a quella “medio-basso”.

Fonte: ISTAT

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