Servizi Antipirateria: intervista a Vincenzo Pergolizzi, Metro Security Express srl

Abbiamo incontrato il dott. Enzo Pergolizzi, AD della Metro Security Express srl, con il quale ci siamo soffermati sul tema dei servizi antipirateria.

  1. Dottor Pergolizzi, uno dei settori della vigilanza privata che ha sperimentato una crescita significativa in anni recenti è quello dell’antipirateria. Eppure gli istituti che svolgono questo servizio sono ancora delle eccezioni. Ha una sua opinione in proposito? Qual è attualmente lo stato di questo settore specifico?

Ricordiamo innanzitutto che nei tempi moderni è stata la pirateria somala, a causa del virulento impatto determinatosi sul commercio mondiale in termini economici e di perdita di vite umane, a giocare un ruolo fondamentale, costringendo tutti gli Stati ad uno sforzo di cooperazione per porre a fattor comune le risorse disponibili allo scopo di debellarlo

A fronte di un crimine internazionale, cha ha comunque pesantemente coinvolto anche la nostra marina mercantile e che ha raggiunto il suo livello massimo nel 2010 con circa 445 incidenti segnalati, l’Italia si è mossa con netto ritardo con la promulgazione della L. 130/2011 che, introducendo il sistema duale, ha permesso l’imbarco sulle navi italiane di nuclei militari di protezione ed, in subordine, l’impiego di guardie giurate con decreto antipirateria, dipendenti da istituti di vigilanza privata.

Questa legge, che ha rappresentato indubbiamente un forte elemento di novità nel quadro normativo italiano, ancora oggi non ha visto la piena attuazione. Ai ritardi derivanti dalla definizione del decreto attuativo (D.M. 266/2012) e della circolare esplicativa (ottobre 2013), che hanno permesso l’operatività dei privati solo dalla fine del 2013, si sono aggiunti i problemi riferiti alla selezione e formazione delle guardie giurate, ancora oggi irrisolti.

Sarebbe lungo adesso trattare l’argomento nella sua complessità, per chi fosse interessato si rimanda agli articoli pubblicati da S News nel 2019 e 2020, certo è che ancora oggi il combinato disposto dall’art. 5 del D.L. 107/2011 che prevedeva l’impiego di guardie giurate formatesi presso le scuole di specializzazione della marina e della capitaneria di porto, non trova applicazione. Dopo più di 7 anni e con oltre un migliaio di servizi di protezione effettuali con successo, si continua infatti a lavorare in regime di deroga con l’impiego di personale proveniente dalle forze armate. Se si considera che la deroga risale al 2011, che l’ultima proroga scadrà il prossimo 31/06/2021 e che nel momento in cui ci stiamo parlando non sono state ancora tracciate le linee di azione futura, ben si comprende quale siano le difficoltà in cui si trovano gli operatori di questo specifico comparto.

Ho ritenuto necessario questo preambolo per inquadrare il contesto operativo di una attività che, partita in ritardo, ha visto raggiungere il proprio apice nel 2015 ma che negli anni successivi è andata riducendosi costantemente fino ad arrivare agli attuali minimi storici che hanno portato l’attività di antipirateria in piena crisi. Crisi che deriva da due fattori principali: la contrazione dell’area geografica nella quale agivano i pirati, definita l’high risk area; la diminuita minaccia piratesca, derivante dalla mutata condizione geopolitica; ai quali va aggiunto il colpo di grazia dato dalla pandemia in atto derivante dal Covid-19.

Per tornare alla sua domanda rispetto agli istituti di vigilanza che svolgono questo servizio penso che in primo luogo occorra contestualizzare e, a seguire, fare delle considerazioni distinguendo due periodi ben diversi. Il primo riferibile al momento in cui la legge è stata emanata, ed il secondo proiettato sulla situazione attuale.

Iniziamo quindi con il dire che oggi risultano operativi nel settore dell’antipirateria marittima tre istituti di vigilanza, tutti associati ASSIV. Da una osservazione più attenta si rileva che uno soltanto di questi tre operatori era un istituto di vigilanza, peraltro con meno di 50 guardie, che ha ottenuto l’ampliamento della licenza per effettuare i servizi antipirateria. Gli altri due istituti infatti non erano operativi nel settore della vigilanza tradizionale ante legge e sono nati per svolgere esclusivamente i servizi a bordo delle navi. Il primo, che risulta anche il più “anziano”, è la derivazione dello “spin off” da una società inglese che già prima del 2013 svolgeva questa tipologia di servizi per armatori stranieri; l’altro è stato costituito ultimamente da professionisti del settore che operano solo nel campo della sicurezza marittima internazionale.

Questo per focalizzare l’attenzione sul fatto che nessun grande Gruppo del nostro settore ha deciso di ampliare la propria licenza con l’inserimento dei servizi di antipirateria e per porre l’interrogativo su quali siano le ragioni per le quali tale opportunità non sia stata colta. Se oggi tale scelta può essere ritenuta corretta vista la crisi ed un livello di fatturato non significativo, diventa più complicato spiegare questo mancato interesse manifestatosi al momento in cui la legge è nata, quando tutti i segnali potevano far presupporre uno sviluppo positivo del settore.

Peraltro, come detto in precedenza la legge 130/2011 ha rappresentato una innovazione nel quadro normativo italiano in quanto per la prima volta veniva concessa la possibilità ad un istituto di vigilanza da una parte di proiettarsi sul mercato internazionale e dall’altra rappresentava un primo passo per superare i limiti operativi, in quanto venivano attribuite alle guardie giurate funzioni di protezione che, nei fatti, superavano il concetto di “vigilanza e custodia di proprietà mobiliari o immobiliari”, da sempre presente nel T.U.L.P.S.

In relazione a questi importanti elementi di novità risulta quindi difficile comprendere la latitanza dei principali player che, a quanto pare, dimostrano di preferire l’operatività su un mercato nazionale asfittico, dove si discute sui 50 centesimi in più o in meno da applicare alle tariffe ora/uomo, tralasciando mercati internazionali molto più ricchi, con margini di sicura soddisfazione.

Da cosa dipende questo? Forse dal provincialismo che blocca i nostri imprenditori migliori colpiti da una sindrome al contrario, rispetto a quella che rende il mercato della sicurezza italiano non appetibile per gli imprenditori stranieri. Mi spiego meglio, così come le società di sicurezza multinazionali non investono in Italia perché non capiscono la nostra burocrazia e non si fidano del nostro sistema giuridico, allo stesso modo i nostri imprenditori preferiscono restare entro i confini di in un mare chiuso ed in parte torbido, che pensano di conoscere e di poter governare nonostante se ne lamentino, piuttosto che inoltrarsi in acque più ampie e limpide che, se da una parte appaiono più ricche, dall’altra comportano l’assunzione dei rischi derivante dal confronto con i colossi multinazionali del settore.  

Al di là di questo ed a parziale giustificazione degli imprenditori di cui sopra, resta comunque il fatto che, a chi come me ha vissuto tutte le fasi di sviluppo del settore dell’antipirateria subendone le difficoltà, non può sfuggire come l’insipienza dei burocrati, unita all’incapacità dei policy makers di legiferare mettendo a frutto l’esperienza maturata, ha concretamente posto fin dall’inizio una serie di difficoltà che ha reso oggettivamente il percorso di sviluppo dell’attività di antipirateria una sorta di corsa ad ostacoli. Impedimenti che sono presenti ancora oggi  e che, stante l’attuale quadro normativo delineato dal DM 139/2019, fanno presagire il serio rischio di dover interrompere l’attività qualora, dopo il 31/06/2021, non dovesse esserci l’ennesima proroga dei criteri di qualificazione delle guardie giurate antipirateria già decretate. Nel qual caso il percorso di guerra “sapientemente” organizzata dalle nostre istituzioni non avrebbe alcun vincitore ma un unico sconfitto: il nostro sistema-Paese.

2) Quando si parla di antipirateria, per estensione si pensa anche alla vigilanza privata del personale italiano impiegato, e degli assets delle nostre imprese, all’estero; attività che invece è tuttora vietata dalla normativa italiana. A che punto è il percorso avviato da Assiv, e sostenuto con tenacia nel corso del tempo, per modificare tale stato di cose?

Se come dicevo prima, da una parte i più importanti imprenditori italiani non sembrano trovare un reale interesse verso l’internazionalizzazione, dall’altra c’è un forte sforzo da parte delle associazioni di categoria, ed in particolare di ASSIV, nel promuovere lo sviluppo del mercato fuori dai nostri confini. Penso che l’ASSIV in questo senso stia provando, con non poche difficoltà, a modificare l’attuale paradigma del mondo della sicurezza indirizzando in tal senso il settore verso un cambio culturale che sia in grado di superare il vecchio ed ormai obsoleto concetto di Istituto di vigilanza.

Aprire l’industria italiana della sicurezza, e non a caso uso questo termine, al mercato estero consentendo nel contempo alle guardie giurate di poter garantire la protezione anche delle persone, la così detta “close protection”, non può che rappresentare un chiaro obiettivo da conseguire a breve se non si vuole arrivare ad un collasso di un settore che oggettivamente versa in gravissima difficoltà. Basti pensare a proposito, al di là delle tante imprese del comparto che hanno chiuso o che hanno da anni bilanci in profondo rosso, che non si riesce a rinnovare il CCNL di categoria, scaduto nel 2015.

Ritengo allora che siano ormai maturi i tempi per gli operatori italiani di assumere un ruolo da protagonisti nel mercato internazionale, superando in primo luogo la chiusura culturale che fino ad oggi è stata la cifra (negativa) di distinzione del comparto. Evidentemente questo cambio di passo è ottenibile esclusivamente a seguito di un riordino complessivo della normativa con il superamento degli attuali limiti operativi, derivanti per lo più da posizioni ideologiche ormai anacronistiche. Non è un percorso semplice, stante la nostra situazione politica, certo è che il raggiungimento di questo ambizioso obiettivo comporterebbe un considerevole aumento di fatturato e di addetti, oltre che ad una potenziata professionalità, derivante dalla capacità di saper competere ai più alti livelli. Tanto per avere una idea basti pensare che il fatturato nel 2016 del settore sicurezza in Europa è stato pari a circa 35 miliardi di euro rispetto ad un valore complessivo a livello mondiale di 200 miliardi di dollari, con la presenza di circa 100 mila PMSCs con 3,5 milioni di operatori.

Per rispondere infine alla sua domanda sul percorso fin qui portato avanti dall’ASSIV, c’è da dire che una prima importante azione è stata condotta nella precedente legislatura con il Sen. Mario Mauro, il quale ha presentato due proposte di legge riferite alla “sicurezza all’estero” ed alla “close protection”. Tale lavoro è quindi proseguito nell’ambito dell’attuale XVIII° ed al momento sono pendenti quattro proposte di legge in materia di “impiego di guardie giurate all’estero” portate all’esame della Commissione degli Affari Costituzionali della Camera dei Deputati che, nell’ambito dei lavori, ha audito anche la dr.ssa Maria Cristina Urbano, Presidente Assiv.

Il merito più grande che ritengo sia doveroso attribuire all’ASSIV è stato quello di portare trasversalmente all’attenzione dei gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia, Lega Nord, 5 stelle e Partito Democratico, le problematiche riferite al nostro settore, riuscendo a fare una sintesi che, superando radicati pregiudizi ideologici, ha trovato concordi partiti politici solitamente in contrapposizione fra di loro.

In particolare, come riportato nella relazione accompagnatoria al disegno di legge, è stato riconosciuto su base comune che l’apertura del mercato a nuove opportunità porterebbe a: l’apporto di nuovi afflussi di capitale all’erario, grazie alla limitazione dell’uscita dallo Stato di ingenti risorse economiche utilizzate dalle nostre imprese di punta per pagare la sicurezza; la collocazione degli ex  militari in congedo, il cui alto livello di formazione è ampiamente riconosciuto in Italia ed all’estero, che troverebbero quale naturale sbocco professionale l’impiego in attività di sicurezza privata ad alta qualificazione; una maggiore garanzia di controllo dei flussi informativi, grazie all’impiego di personale italiano, ai fini della protezione delle politiche e degli assets aziendali, in un contesto che potrebbe vedere in contrapposizione l’interesse privato della società di sicurezza straniera rispetto alla tutela degli interessi nazionali delle nostre imprese.

La XVIII° legislatura non è ancora conclusa e pertanto, sebbene esile, può ancora esserci la speranza che gli ultimi disegni di legge presentati possano completare l’iter e Camera e Senato arrivino alla conversione. Guardando però con occhio realistico l’evolversi delle vicende politiche, caratterizzate da una instabilità strutturale e da una forte litigiosità fra i partiti, è più probabile che tale speranza resti un miraggio.    

3) La centralità acquisita dagli IVP nell’antipirateria ha avuto il suo punto di svolta a seguito del caso dell’Enrica Lexie, con il conseguente arresto dei nostri marò Girone e Latorre e la successiva crisi diplomatica tra Italia e India. Pensa che la tragedia di poche settimane fa avvenuta in Congo, con il barbaro assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio, contribuirà ad alimentare il confronto sull’opportunità di garantire i necessari livelli di sicurezza ai cittadini italiani in zone a rischio anche per mezzo del personale appositamente formato dai nostri Istituti di vigilanza?

La sicurezza è una materia delicata il cui approccio deve per forza di cose essere razionale, professionale e soprattutto competente. Orbene, al policy maker e più in generale alla politica fatta di proclami e slogan che hanno alla base idee confuse, finalizzate ad ottenere un facile consenso, sembra che questo semplice assunto non sia di interesse. Siamo stati abituati negli anni a vedere interventi legislativi disarticolati, emanati sull’onda dell’emergenza e con il chiaro intento di voler rabbonire una opinione pubblica, sempre più attonita e lontana dai palazzi del potere.

Così è successo con l’antipirateria marittima dove la L.130/2011 è stata promulgata sulla spinta insistente delle Associazioni di categoria dell’armamento italiano che, dopo aver subito diversi sequestri e conseguenti ingenti danni, minacciavano di compiere un cambio di bandiera generalizzato della flotta italiana, verso paesi che fossero in grado di garantire la sicurezza delle navi e degli equipaggi. Lo stesso è avvenuto con l’affare Enrica Lexie visto che solo dopo l’incriminazione dei fucilieri di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone è stato emanato il Decreto Ministeriale che ha consentito l’impiego delle guardie giurate.

Nonostante questo, francamente non ritengo che il vile attentato subito dal nostro rappresentante diplomatico in Congo, che ha portato all’assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, possa in qualche modo influenzare il processo decisionale dei nostri politici. Penso piuttosto che una spinta verso l’approvazione di una legge che permetta la protezione degli interessi nazionali all’estero possa avvenire se stimolato, come per l’antipirateria, dal mondo produttivo.

Questo perché appare oggettivamente incongruente l’attuale situazione che impone all’imprenditore l’applicazione del “duty of care”, cioè l’obbligo di garantire la sicurezza del proprio personale in trasferta in aree a rischio, senza di contro permettergli di commissionare i servizi ad imprese italiane specializzate e costringendolo così a ricorrere a società estere, con il serio rischio di intelligence a cui facevo riferimento in precedenza. Del resto come non si può non restare interdetti rispetto ad un quadro giuridico che da una parte condanna penalmente i vertici di una società privata per omesso controllo sulla corretta applicazione del documento di valutazione dei rischi e dall’altra permette allo Stato, come anche alle ONG, di operare in mancanza delle più basilari norme di sicurezza ? Basta chiedersi a proposito cosa sarebbe successo se lo stesso incidente avesse visto coinvolti due lavoratori di una impresa privata italiana. 

E ’evidente che questo stato di cose deve essere modificato, l’esperienza dovrebbe averci insegnato che nel mondo della sicurezza non può esistere l’improvvisazione come non ha senso effettuare valutazioni basandosi su pesi e misure diverse. In alcuni casi c’è in gioco la vita delle persone e per questo è necessaria la piena consapevolezza e collaborazione di tutti gli stake holders, che a partire dallo Stato veda coinvolti le organizzazioni governative e non, i privati ed i cittadini stessi.

Purtroppo mai come oggi le istituzioni delegate ad intrattenere il rapporto con il mondo della sicurezza privata, e mi riferisco in modo specifico ai funzionari del ministero dell’interno, sono stati sordi a qualsiasi istanza proveniente dal mondo imprenditoriale, preferendo trincerarsi all’interno di bei palazzi, nel perimetro delle loro confortevoli stanze, memori probabilmente di un mondo che fu ed inossidabili ad ogni cambiamento.

In tal senso penso che sia arrivato il momento che gli operatori del settore, e per loro conto le Associazioni di categoria, superino l’attuale approccio istituzionale che rasenta la sottomissione verso i burocrati ministeriali visto che i fatti hanno ampiamente dimostrato che questa strategia non paga in termini di risultati. Certamente è necessario che si ritorni ad instaurare un dialogo con le strutture del Ministero ma, nel contempo, ritengo fondamentale che questo avvenga su basi paritarie e nel rispetto reciproco dei ruoli. Per far questo occorre, da una parte ricordare ai funzionari preposti il loro incarico di “civil servants”, con il dovere di mettere a disposizione le competenze professionali e il senso civico al servizio della collettività, e dall’altra costringerli a spogliarsi di quell’investitura autoreferenziale che molti di loro ritengono di poter ancora oggi conservare.

Sebbene infatti si parli sempre più spesso di collaborazione pubblico/privato, si può affermare senza possibilità di smentita che, nel delicato settore della sicurezza, l’interlocuzione fra gli uffici ministeriali preposti ed i rappresentanti degli imprenditori è assolutamente inesistente. Si è arrivati addirittura al punto che le circolari emanate dal Ministero dell’interno, che rappresentano lo strumento con il quale l’Istituzione impartisce disposizioni e definisce le regole, non sono notificate alle associazioni di categoria bensì trasmesse, con fare che ricorda il periodo borbonico, alle CCIAA che a loro volta (non) provvedono alla divulgazione.

Le difficoltà sono quindi molte e resta comunque il fatto che l’industria della sicurezza privata per la sua sopravvivenza deve giocoforza fare appello al senso di serietà, che nonostante le tante sbavature dobbiamo fortemente credere essere presente nell’apparato delle nostre Istituzioni. Occorre pertanto sperare, ma sarebbe meglio dire pretendere, che le istanze provenienti dal settore della vigilanza privata siano prese da subito in seria considerazione e che si ricostituiscano, su iniziativa e con il coordinamento del Ministero dell’interno, i tavoli di incontro dove tutti i soggetti interessati, pubblici e privati, abbiano l’opportunità di confrontarsi realisticamente, con spirito propositivo sulla base delle esperienze e delle esigenze reciproche, per la crescita e nell’interesse del Paese.

Vincenzo Pergolizzi

AD – Metro Security Express s.r.l.