Reddito di lavoro dipendente – Retribuzione convenzionale per dipendente in smart working
Risposta dell’Agenzia delle entrate 17 maggio 2021, n. 345
Html code here! Replace this with any non empty text and that's it.
Reddito di lavoro dipendente – Retribuzione convenzionale per dipendente in smart working
Risposta dell’Agenzia delle entrate 17 maggio 2021, n. 345
di Michele Dalla Sega
Il decreto Sostegni bis, approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 maggio, contiene una serie di importanti provvedimenti in materia di lavoro, nel segno della continuità, come dimostra l’ulteriore proroga del blocco dei licenziamenti, ma anche con l’introduzione di nuovi istituti, quali il contratto di rioccupazione.
Tra queste misure, nella bozza del decreto, emerge anche una rilevante novità su uno strumento introdotto nel nostro ordinamento nel 2019 per sostituire e rilanciare il precedente “contratto di solidarietà espansiva”, ma che solo negli ultimi mesi è diventato protagonista del dibattito tra governo e parti sociali. Si tratta del contratto di espansione e consiste in un istituto che le imprese possono attivare, in accordo con le organizzazioni sindacali, per supportare procedure di riorganizzazione e modifica dei processi aziendali. Sul piano pratico, nel contratto devono essere previsti una serie di interventi che comprendono la programmazione di un piano di assunzioni di lavoratori con contratto a tempo indeterminato (compreso il contratto di apprendistato professionalizzante), la realizzazione di un programma di formazione e riqualificazione professionale per il personale dell’azienda e, da ultimo, un piano di uscite anticipate per i lavoratori prossimi alla pensione o, in alternativa, un piano di riduzioni dell’orario di lavoro. Qualora siano presenti tali elementi e siano rispettate le procedure previste (in primis, la stipulazione in sede governativa con il Ministero del Lavoro e le organizzazioni sindacali), lo Stato concede specifici incentivi alle imprese coinvolte, mediante sgravi contributivi riferiti ai piani di prepensionamento e la concessione della cassa integrazione straordinaria a copertura delle ore di lavoro non prestate in caso di riduzioni orarie.
Gli obiettivi sfidanti dello strumento, che rimandano a processi di riorganizzazione delle aziende con al centro percorsi di ricambio generazionale e di rinnovo delle competenze degli organici, spiegano bene il successo, almeno sul piano “mediatico”, del contratto di espansione, che nell’ultimo periodo è entrato a far parte in maniera rilevante delle discussioni in materia di lavoro tra Governo, sindacati e associazioni datoriali. Si pensi alla richiesta, portata avanti in più sedi da Carlo Bonomi, di potenziare la misura, intervenendo sulla soglia minima dimensionale delle imprese prevista per poter accedere allo strumento. Per il Presidente di Confindustria, infatti, l’abbassamento della soglia di accesso da 1000 a 500 dipendenti (250 per quanto riguarda il piano di prepensionamento), introdotto con la Legge di Bilancio 2021, non era infatti ancora sufficiente al fine di garantire un’effettiva diffusione in più realtà aziendali dell’istituto. Così come, dall’altro lato, si è segnalata la presenza del contratto di espansione tra i punti principali presentati nella piattaforma unitaria in materia previdenziale di Cgil, Cisl e Uil, quale strumento utile “per governare la difficile fase che si aprirà con lo sblocco dei licenziamenti e per favorire il ricambio generazionale”.
Al di là della sua centralità nel dibattito, però, attualmente il contratto di espansione risulta ancora un istituto dalla diffusione limitata nella prassi, come dimostrano i pochi casi aziendali finora analizzati, che rimandano ad alcune grandi realtà del mercato italiano. I contratti di espansione sottoscritti con le organizzazioni sindacali da parte di Tim, Ericsson, Bricocenter e Eni, oltre a rappresentare un interessante esempio di come le astratte previsioni legislative vengono applicate sul piano concreto nei contesti d’impresa, dimostrano che fino ad ora solo realtà molto strutturate e con un ampio bacino occupazionale hanno saputo cogliere le opportunità della misura. Da qui la richiesta di associazioni datoriali e sindacati di ridurre sensibilmente il parametro occupazionale richiesto, nella convinzione che la modifica di questo elemento possa finalmente favorire una diffusione capillare della misura.
Sotto questo aspetto, con il decreto Sostegni-bis, il governo ha dimostrato di voler intervenire tempestivamente, dato che la soglia dimensionale per accedere al contratto di espansione, prevista attualmente dall’art. 41, c. 1-bis del D.Lgs. n. 148/2015, viene abbassata a 100 unità, senza operare distinzioni tra accordi che prevedono il prepensionamento dei lavoratori e altri che istituiscano riduzioni dell’orario di lavoro e con un conseguente aumento delle risorse annuali stanziate per finanziare la misura. Il “salto” quantitativo rispetto alla situazione precedente appare in maniera evidente, specialmente se confrontato col fatto che, prima della legge di Bilancio 2021, la norma faceva riferimento esclusivo alle aziende con più di 1000 dipendenti.
La novità introdotta ha quindi il merito di rimuovere un primo ostacolo in vista di una più ampia diffusione del contratto di espansione, almeno sul piano formale, per far sì che quest’ultimo non segua la parabola fallimentare del suo predecessore, ossia il contratto di solidarietà espansiva. Resta però aperta una questione, che nasce dallo studio dei casi finora presenti, e rimanda sia alle complesse procedure formali di implementazione dei processi di assunzione, formazione, prepensionamento e riduzione degli orari di lavoro, sia agli ingenti costi che le imprese, al di là degli incentivi pubblici che ricevono nell’ambito dell’operazione, sono tenute a sostenere per finanziarli. Basterà l’abbassamento di un requisito occupazionale per sciogliere nodi procedurali ed economici che, specialmente per le piccole e medie imprese, hanno più volte dimostrato di poter bloccare processi di rinnovamento e riorganizzazione? Aziende, sindacati e associazioni datoriali, nei prossimi mesi, hanno il complesso ma affascinante compito di smentire questo dubbio.
Fonte: ADAPT
Nuovi rischi e prospettive di evoluzione dei modelli di gestione
La pandemia ha avuto un impatto rilevante su quasi ogni dimensione del mondo del lavoro, ma quella che ne è stata maggiormente stravolta è stata la salute e sicurezza.
L’esplodere di un evento dal potenziale dirompente in termini di rischi per la salute dei lavoratori e di tutta la popolazione ha portato, nel giro di pochi giorni a scelte drastiche prima – la chiusura di molte attività – e misure stringenti poi che, in ottemperanza dei protocolli sulla sicurezza, hanno visto un vasto adeguamento da parte delle aziende.
Queste sono state impegnate, sia da un punto di vista organizzativo che economico, non solo nel garantire le misure minime di prevenzione (dalle sanificazioni, alla distribuzione delle mascherine, ben il 98% delle imprese italiane vi ha provveduto), ma anche nel fornire adeguata informazione ai dipendenti (94,7%), erogare specifica formazione (90,4%), far ruotare il personale o programmare accessi e uscite scaglionati (70%), mettere a disposizione dei collaboratori test di diversa natura
(52%) ed esonerare i lavoratori più fragili o con specifiche problematiche di assistenza dall’obbligo della presenza (46,2%).
Misure che hanno interessato trasversalmente il mondo delle imprese, dalle grandi fino alle piccole che, pur tra mille difficoltà, hanno comunque adeguato i propri modelli organizzativi e gestionali agli standard imposti dalla pandemia: standard in molti casi onerosi, sia da un punto di vista organizzativo che economico.
Gli sforzi sono stati ripagati dai risultati, con un contenimento degli infortuni da Covid in ambito di lavoro e dei casi di mortalità: al 31 marzo 2021 l’Inail contabilizzava 165 mila denunce di infortunio da Covid, concentrate per lo più nel settore sanitario (67,5%), di cui 551 con esito mortale. Un dato elevato, considerato l’impatto complessivo degli infortuni da Covid sul totale di quelli denunciati (i contagi causati dal virus Sars-Cov-2 hanno costituito nel 2020 il 23,6% delle denunce e il 33,3% di quelle mortali), ma relativamente contenuto se confrontato agli effetti, in termini di contagi e mortalità, prodotti dall’epidemia.
Al tempo stesso, il ricorso diffuso al lavoro agile quale strumento principale di prevenzione alla diffusione dei contagi nel luogo di lavoro, oltre a contenere il rischio, ha avuto il positivo effetto di produrre un significativo crollo degli infortuni in itinere, quelli che avvengono nello spostamento tra l’abitazione e il luogo di lavoro.
Tra 2019 e 2020, le denunce sono passate da più di 100 mila a circa 62 mila, registrando un decremento del 38,3% e portando l’incidenza dei casi in itinere sul totale dal 15,7% all’11,2%. In termini di mortalità, l’impatto è stato ancora più evidente: a fronte di una riduzione del 30,1% dei casi, l’incidenza sul totale delle morti nel tragitto casa-lavoro su quelle totali è passata dal 28,1% del 2019 al 16,8% del 2020.
Tale dinamica segna una discontinuità importante rispetto alle tendenze degli ultimi anni che, a fronte di una stabilità degli infortuni sul luogo di lavoro, avevano visto crescere progressivamente il numero di quelli in itinere, in particolare tra le donne. Nel 2019 tale modalità contribuiva al 22,4% dei casi di infortunio e al 51,1% di quelli mortali per questo segmento, ma nel 2020 i valori si sono ridimensionati arrivando rispettivamente al 12,9% e 26,1%, anche e soprattutto per effetto del
ricorso al lavoro agile.
Proprio lo sviluppo di questo nuovo modello organizzativo, se da un lato ha positivi effetti con riferimento all’incidentalità e mortalità sul lavoro, dall’altro pone nuove sfide in termini di salute e sicurezza. La dislocazione dell’attività lavorativa dall’azienda alla casa prevede infatti, al di là delle responsabilità datoriali, una responsabilizzazione crescente del lavoratore, a cui è chiesto di collaborare per organizzare al meglio la propria postazione di lavoro domestico, al fine di garantire adeguata sicurezza e prevenire l’accadimento di infortuni o l’insorgere di malattie.
In questo contesto, si ampliano i margini di rischio potenzialmente legati alla sicurezza di un ambiente di lavoro che può variare nel tempo (il 27% dei lavoratori agili ha lavorato da un luogo diverso dalla propria abitazione, anche per periodi prolungati), che non è detto rispetti le normative minime di sicurezza impiantistica (elettrica, antincendio) o che presenti ambienti e postazioni di lavoro adeguati e attrezzate secondo criteri ergonomici: secondo l’indagine svolta dai consulenti del
lavoro ad aprile su un campione di occupati, ben il 48,3% degli smart workers presenta disturbi e problemi fisici legati all’inadeguatezza delle postazioni domestiche.
A tali aspetti si aggiunge il rischio di aumento dello stress prodotto dalla dilatazione dei tempi di lavoro, dall’ansia da prestazione, dall’indebolimento delle relazioni aziendali e dalla paura di marginalizzazione, già individuati da quasi la metà dei lavoratori agili quali elementi di disagio del lavoro da remoto.
Sono primi elementi di un’esperienza ancora in corso di assestamento e valutazione, ma il cui impatto sulla dimensione della salute e della sicurezza potrebbe essere dirompente, sia in termini di contenimento del fenomeno infortunistico che di innovazione delle logiche di prevenzione e sicurezza, che devono essere rese più funzionali ai nuovi modelli organizzativi.
Anche in questo passaggio, la salute e la sicurezza sul lavoro sono destinate a ricevere un’attenzione crescente, da parte di imprese, lavoratori, loro rappresentanze e istituzioni. L’emergenza, oltre a rendere tangibile e reale “il rischio”, ha portato tale dimensione al centro delle strategie e dell’organizzazione aziendale, aprendo la strada a un’inattesa coincidenza di interessi tra le parti: di tutela della salute da un lato, e salvaguardia dell’attività di impresa dall’altro.
Quello che è andato maturando nel corso dell’anno è un approccio diverso al tema della salute, che si è tradotta in un’accelerazione del dialogo sociale, della contrattazione, centrale e di prossimità, innescando anche a livello aziendale un’intensa attività di negoziazione, improntata ad una logica di intervento in materia meno procedurale e più sostanziale, meno “verticale” e più partecipata.
Un processo che, sebbene condiviso, non è stato privo di elementi di conflittualità, ma da cui c’è da sperare possa prendere forma un modello sempre più integrato tra salute e lavoro, che porti tale dimensione da elemento procedurale a sostanziale, facendo delle realtà aziendali un perno di quel sistema di salute di territorio che oggi occorre ricostruire. Magari partendo dalla campagna di vaccinazione, primo test di un modello nuovo, che la pandemia potrebbe lasciare in eredità.

L’appello al governo e al Parlamento è che si trovino le risorse per valorizzare uno strumento di sostegno strutturale all’economia, anche se non sarà più il professor Parisi a gestirlo
Il nome di Domenico Parisi è naturalmente legato all’ANPAL e a quando, più di due anni or sono, fortemente voluto dal Movimento 5 stelle, fu richiamato dagli Stati Uniti, dove insegnava, per guidare l’agenzia che avrebbe dovuto definire il perimetro di applicazione del reddito di cittadinanza e soprattutto l’impiego, strettamente connesso, dei cosiddetti navigator.
Sembra essere passata un’eternità da allora e certamente oltre un anno di pandemia non aiuta a valutare con la dovuta oggettività quanto è andato bene e quanto meno bene.
Tuttavia, non si può ignorare il fatto che il prof. Parisi non abbia saputo evitare alcuni grossolani scivoloni, prontamente evidenziati e fortemente criticati tanto dalla stampa quanto dal partito che lo aveva voluto, a partire dalla questione delle indennità economiche che si era assegnato. Se a ciò si aggiungono i risultati non particolarmente incoraggianti nei numeri dei nuovi occupati, ecco spiegate le ragioni per le quali il governo Draghi, e in particolare il ministro Orlando, hanno metaforicamente accompagnato alla porta il professore del Mississippi.
Sarebbe però un grave errore, nel quale peraltro spesso indulgiamo, gettare il bambino assieme all’acqua sporca.
Va infatti ricordato come l’ANPAL, negli ultimi mesi, abbia dato il via a uno strumento particolarmente apprezzato dalle aziende che rappresento, e ritengo dall’intera imprenditoria italiana, quello del Fondo nuove competenze. Si tratta di uno strumento innovativo, che offre all’imprenditore l’opportunità di garantire ai propri lavoratori centinaia di ore di formazione, integralmente finanziate come costo del lavoro (retribuzione e relativi contributi) e con pagamento integrale della retribuzione, senza limiti di massimale (a differenza dei sistemi di sostegno al reddito) e di categoria di inquadramento (si applica anche ai dirigenti).
Il programma permette fino a 250 ore di formazione a lavoratore, da completarsi in un periodo di 90 o 120 giorni a seconda che vengono o meno attivati i fondi interprofessionali. In una fase congiunturale in cui il nostro sistema economico e produttivo è posto dinanzi l’improrogabile necessità di rinnovarsi profondamente per far fronte a criticità vecchie e nuove, fin troppo conosciute le prime, completamente inaspettate le seconde, mi pare di poter dire che sull’argomento l’ANPAL abbia quanto meno saputo interpretare correttamente il proprio ruolo.
Il comparto della sicurezza privata negli ultimi anni ha vissuto un profondo riassetto normativo, che si è riflesso sull’organizzazione delle singole aziende le quali, in alcuni casi, hanno cambiato totalmente il proprio paradigma di riferimento. Si assiste a una inesorabile trasformazione da imprese tradizionalmente a forte connotazione labour intensive a imprese all’avanguardia da un punto di vista tecnologico, con centrali operative in alcuni casi superiori alle migliori strutture in dotazione alle Forze dell’Ordine.
In molti ambiti stiamo già sperimentando la sicurezza del futuro e, anche se ancora lontani dalle suggestioni cinematografiche di un Ridley Scott, il punto è che il nostro personale assomiglia sempre meno al classico piantone (seppur ancora necessario) e sempre più ad un professionista con significative competenze informatiche e tecnologiche.
Accompagnare e favorire questo processo di trasformazione delle competenze, nel nostro come negli altri comparti produttivi, è l’obiettivo che si pone il Fondo nuove competenze, anche per evitare che in momenti di crisi come quello attuale le imprese debbano ricorrere al licenziamento tout court del personale poco qualificato (e pertanto meno produttivo), fornendo invece la possibilità a giovani e meno di giovani di rimettersi in gioco.
L’appello al governo e al Parlamento è che si trovino le risorse per valorizzare uno strumento di sostegno strutturale all’economia, anche se non sarà più il professor Parisi a gestirlo. La continuità dell’azione amministrativa è un valore da salvaguardare.
Maria Cristina Urbano
Leggi l’articolo sull’Huffington Post
Segui il blog di Maria Cristina Urbano