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Obbligo di vaccinazione e rapporto di lavoro: prime riflessioni

Topic picture, symbol photo: Corona vaccine. Biontech and Pfizer apply for approval of corona vaccine. A hand wrapped in a rubber glove holds a disposable syringe, syringe, vaccination syringe and a vaccination can, | usage worldwide (hair - 2020-11-20, Frank Hoemann/SVEN SIMON / IPA) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

ADAPTObbligo di vaccinazione e rapporto di lavoro: prime riflessioni

di Marco Lai

Assai dibattuto tra studiosi e giuristi è il tema dell’esistenza o meno di un obbligo di vaccinazione nel rapporto di lavoro. La questione è estremamente delicata e richiede a nostro avviso molta prudenza, anche perché coinvolge diversi profili (lavoristico, costituzionale, penale, previdenziale). Sono perciò da evitare posizioni “da stadio”, dovendo la soluzione assicurare un equilibrato bilanciamento tra interesse collettivo e interesse individuale, come richiede lo stesso art. 32, comma 1 Cost.

In via preliminare è da precisare che la questione si porrà in concreto quando sarà disponibile il vaccino per le diverse categorie di lavoratori (i ritardi nelle consegne di questi giorni suscitano molta perplessità). Occorre domandarsi se la vaccinazione, quale sostanzialmente unico strumento per sconfiggere il virus Covid-19, rappresenti oltre, a nostro avviso, ad un obbligo morale anche un obbligo giuridico.

La norma cardine da cui partire è l’art. 32, comma 2, della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La Costituzione affida dunque alla legge la materia in esame.

Una norma di legge già esiste oppure no?

Secondo autorevole dottrina sì. La si potrebbe ricavare in particolare dal sempreverde art. 2087 c.c., che stabilisce, quale “norma aperta”, un obbligo di sicurezza sul piano del contratto di lavoro a carico del datore (e di conseguenza del lavoratore) nonché dall’art. 279, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 81 del 2008, che prevede tra le misure speciali di protezione “la messa a disposizione di vaccini per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico” (tra cui rientra anche la Sindrome respiratoria acuta da coronavirus 2-SARS-CoV-2-, inserita, in attuazione della direttiva UE 2020/739, nell’elenco degli agenti biologici del gruppo 3 dell’Allegato XLVI al d.lgs. n. 81 del 2008, quale agente che può causare malattie gravi in soggetti umani, costituisce un serio rischio per i lavoratori e può propagarsi nella comunità, ma per cui sono di norma disponibili efficaci misure profilattiche e terapeutiche; cfr. art. 4 del decreto-legge n. 125 del 2020).

Entrambe le soluzioni non sembrano del tutto condivisibili. Non si può infatti ritenere sufficiente il richiamo all’art. 2087 c.c., stante la sua portata indeterminata, per dare attuazione all’art. 32, comma 2 Cost., che richiede una norma specifica diretta ad imporre la vaccinazione; né d’altro lato si può desumere un obbligo generale da una norma particolare quale è l’art. 279, d.lgs. n. 81 del 2008, che, al di là della sua formulazione letterale – “messa a disposizione di vaccini” e non “obbligo di vaccinazione” –  essendo ricompresa nel Titolo X, sull’esposizione ad agenti biologici, si applica solo a quelle attività per le quali esiste un rischio professionale di esposizione ad agenti biologici (ad esempio, laboratori).

Ciò non significa che per talune attività lavorative particolarmente esposte al virus Covid-19 (si pensi alla sanità o al settore socio assistenziale, in cui vi è una concreta possibilità di entrare in contatto con persone affette da coronavirus o con persone “fragili”, che necessitano di una più intensa tutela) un obbligo di vaccinazione non si possa ricavare dalle norme vigenti (cfr. in particolare per il settore sanitario l’art. 286-sexies, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 81 del 2008, che, tra le misure da adottare qualora la valutazione dei rischi evidenzi il rischio di ferite da taglio o da punta e di infezione,  comprende l’informazione per mezzo di specifiche attività di sensibilizzazione, anche in collaborazione con le associazioni sindacali di categoria e i RLS, in merito, tra l’altro,  a “vantaggi e inconvenienti della vaccinazione o della mancata vaccinazione, sia essa preventiva o in caso di esposizione ad agenti biologici  per i quali esistono vaccini efficaci”). Si prevede inoltre che “tali vaccini devono essere dispensati gratuitamente a tutti i lavoratori ed agli studenti che prestano assistenza sanitaria ed attività ad essa correlate nel luogo di lavoro”) o posto quale misura precauzionale da parte del medico competente. L’ordinamento italiano già conosce peraltro numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di lavoratori (si pensi alla vaccinazione contro il tetano o contro la tubercolosi).

Anche in tal caso, la mancata volontà del lavoratore di sottoporsi a vaccinazione non potrà tuttavia dar luogo automaticamente al licenziamento ma ad una gradazione di possibilità. Configurandosi, infatti, come inidoneità alla mansione specifica troverà applicazione la disciplina di cui all’art. 42, d.lgs. n. 81 del 2008 (spostamento, ove possibile, ad altra mansione anche inferiore con mantenimento dello stesso trattamento precedente; sospensione del rapporto di lavoro).

Un’ultima ma non meno rilevante questione riguarda il ruolo delle parti sociali.

E’ noto il contributo che le parti sociali hanno fornito per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, tramite le misure precauzionali poste nei Protocolli condivisi, a partire da quello siglato il 14 marzo 2020, come integrato dal Protocollo del 24 aprile 2020, a cui hanno fatto seguito intese di settore e territoriali. Ai Protocolli si è poi fatto riferimento nei vari provvedimenti anticontagio (DPCM) susseguitisi nel tempo, che ne hanno altresì affermato il rispetto quale condizione per la prosecuzione dell’attività lavorativa.

Da menzionare è anche l’art. 29-bis della legge n. 40 del 2020, di conversione del decreto-legge n. 23 del 2020, il quale prevede che ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, l’applicazione delle prescrizioni contenute nel Protocollo condiviso del 24 aprile 2020 e negli altri Protocolli e linee guida costituisce adempimento dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.

Pur potendo la contrattazione collettiva e la bilateralità giocare un ruolo significativo in questa materia, occorre, a nostro avviso, molta prudenza prima di stabilire un obbligo di vaccinazione tramite i Protocolli condivisi. Ricordiamo che l’art. 32, comma 2 Cost. pone al riguardo una riserva di legge, che per come è configurata pare assoluta, stante anche la valenza tecnica della scelta da effettuare.

I Protocolli possono indubbiamente essere aggiornati dando rilievo a campagne di informazione e sensibilizzazione rispetto alla importanza della vaccinazione ma non possono sostituirsi alla esplicita previsione di un obbligo di legge che in tal caso appare necessario. La disciplina contrattuale potrà d’altro lato utilmente definire le modalità applicative di tale obbligo nei diversi contesti lavorativi.

E’ auspicabile dunque che in materia la politica batta un colpo, se non in via generale, quanto meno per le attività e lavorazioni più esposte al rischio di contagio.

Marco Lai

Fonte: ADAPT

Le nuove linee guida per l’interoperatività degli enti pubblici titolari del sistema di certificazione delle competenze: primi spunti d’analisi

ADAPT – Le nuove linee guida per l’interoperatività degli enti pubblici titolari del sistema di certificazione delle competenze: primi spunti d’analisi

di Stefania Negri, Giorgio Impellizzieri

Il decreto 5 gennaio 2021, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 18 gennaio 2021 (n.13) ha emanato le «Disposizioni per l’adozione delle linee guida per l’interoperatività degli enti pubblici titolari del sistema nazionale di certificazione delle competenze», la cui adozione era prevista dall’art. 3, comma 5, del d.lgs. 13/2013.  Con un ritardo di oltre sette anni dall’introduzione nel nostro paese del diritto alla certificazione delle competenze (art. 4, commi 51-61 della Legge 28 giugno n. 12 del 2012 e art. 1 del d.lgs. 13/2013) tali Linee guida rappresentano un tassello fondamentale per interrompere la lunga storia di sostanziale inoperatività dell’intero sistema.

Le aspettative e i nodi ancora da sciogliere al fine di dare operatività al sistema di certificazione delle competenze non erano del resto pochi (per un maggiore approfondimento si rimanda a L. Casano, Certificazione delle competenze: i nodi irrisolti, in attesa delle Linee Guida per l’avvio del sistema nazionale, in Bollettino ADAPT n. 10/2020). Da ultimo, il tema della certificazione delle competenze è tornato alla ribalta in occasione dell’introduzione del Fondo Nuove Competenze. Istituito presso ANPAL con il decreto-legge n. 34 del 2020 (Decreto Rilancio), al fine di consentire la graduale ripresa dell’attività dopo l’emergenza epidemiologica, il Fondo copre i costi sostenuti dalle aziende che, in presenza di accordi sindacali aziendali o territoriali, destinano parte dell’orario di lavoro dei propri dipendenti ad attività formative (per un massimo di 250 ore per ciascun lavoratore).

Secondo quanto previsto dall’avviso di ANPAL del 4 novembre e precisato dalle successive FAQ (E. Massagli, G. Impellizzieri, ANPAL pubblica le FAQ sul Fondo Nuove Competenze. Molte risposte e qualche nuova domanda, in Bollettino ADAPT n. 44/2020), l’azienda, per ottenere il rimborso delle spese sostenute deve allegare alla richiesta di saldo la certificazione/attestazione delle competenze acquisite ad esito dei percorsi formativi finanziati. Al di là della parificazione tra due concetti – “attestazione” e “certificazione” – che, come confermeranno le Linee guida in esame, sono ben distinti, tra gli operatori rimaneva oscuro come fruire di servizi e processi, pressoché inesistenti in molte regioni. Occorre d’altra parte fin a ora segnalare che l’adozione delle Linee Guida non risolverà nell’immediato questa e altre criticità legate alla sostanziale inoperatività dei servizi: il decreto prevede infatti che gli enti titolari dei servizi che non dispongano di un quadro regolamentare conforme agli standard minimi di servizio e ai livelli essenziali delle prestazioni del Sistema nazionale di certificazione delle competenze, hanno 24 mesi di tempo dalla data di pubblicazione del decreto per adottare gli atti di regolamentazione necessari, il che prefigura l’avvio di un’altra lunga fase di recepimento.

Le Linee guida hanno come obiettivo quello di rendere «operativo il sistema nazionale di certificazione delle competenze» e, dopo aver fatto una rassegna di definizioni normative dei concetti e strumenti che compongono il sistema (competenza, repertorio, certificazione, attestazione, ecc.), provvedono (i) all’identificazione degli standard minimi del servizio di individuazione e validazione delle competenze e del servizio di certificazione delle stesse; (ii) alla definizione dei criteri per l’implementazione del repertorio nazionale e per il suo aggiornamento periodico; (iii) alla progressiva realizzazione e raccordo funzionale della dorsale unica informativa.

Il servizio di individuazione e validazione delle competenze è finalizzato al riconoscimento, da parte di un ente titolato, delle competenze acquisite dalla persona, attraverso una ricostruzione e valutazione dell’apprendimento non formale o informale. Il processo di individuazione e validazione può completarsi con il rilascio di un documento denominato «Documento di validazione» che ha valore di atto pubblico e di attestazione almeno di parte seconda e che può eventualmente fungere da presupposto per la successiva certificazione. Con “attestazione di parte seconda” si intende una attestazione rilasciata da un ente titolato, a differenza delle “attestazioni di parte prima” che invece sono costituite da auto-dichiarazioni della persona interessata.

Nella fase di identificazione sono ricostruite le esperienze di apprendimento della persona, in base alle sue richieste e in modo da codificare le diverse attività (attraverso i descrittori dell’Atlante del lavoro e delle qualificazioni) e le diverse competenze maturate (secondo i descrittori del Repertorio delle qualificazioni di pertinenza). Al fine di individuare le competenze del richiedente deve essere elaborato un “Dossier di evidenze” che raccolga e classifichi documenti, testimonianze e prodotti che comprovano l’esperienza svolta. A conclusione della fase di identificazione è redatto un “Documento di trasparenza” che sintetizza i risultati del procedimento e che può essere rilasciato, su richiesta, all’utente nel caso in cui non si proceda alla successiva fase di valutazione presso lo stesso ente titolato.

La fase della “valutazione”, prodromica alla redazione del “Documento di validazione”, consiste nell’esame del Dossier delle evidenze e del Documento di trasparenza e in un eventuale momento di valutazione diretta delle competenze maturate dal richiedente. In base al valore degli elementi prodotti e della coerenza tra le evidenze documentate e la qualificazione di riferimento, il personale addetto alla funzione di pianificazione e realizzazione delle attività valutative può disporre lo svolgimento di prove orali, scritte o pratiche (ove consentito, anche da remoto).

Il servizio di certificazione delle competenze è finalizzato al rilascio di un documento “Certificato” attestante le competenze acquisite dalla persona. Il Certificato può essere rilasciato a seguito della del processo di individuazione e validazione ovvero a seguito di un percorso di apprendimento formale. Il Certificato, che costituisce attestazione di parte terza (in quanto rilasciata dall’ente titolare con il supporto dell’ente titolato) ed ha valore di atto pubblico, è rilasciato a seguito della l’acquisizione del Documento di validazione e della valutazione – necessaria e non più eventuale – realizzata mediante prove orali, scritte o pratiche (ad esempio audizione, colloquio tecnico, prova pratica). La valutazione è svolta a cura di una commissione o di un organismo di valutazione che assicura il rispetto dei principi di collegialità, oggettività, terzietà, indipendenza, completezza e correttezza metodologica del processo.

Le Linee guida inoltre fissano i criteri per l’implementazione e  l’aggiornamento del Repertorio nazionale, riconosciuto come «riferimento unitario ai fini della progettazione formativa per competenze, della individuazione delle competenze acquisite in contesti di apprendimento formali, non formali e informali, della personalizzazione dei percorsi di apprendimento permanente, della certificazione e della trasparenza, spendibilità e riconoscimento delle qualificazioni a livello nazionale e comunitario».

In particolare, le Linee guida illustrano il funzionamento e la struttura dell’Atlante del lavoro e delle qualificazioni, strumento digitale e consultabile attraverso il quale il Repertorio è sistematizzato. Nella sezione “classificazione dei settori economico-professionali”, l’Atlante descrive i contenuti del lavoro e delle professioni, articolandosi per processi di lavoro, declinato a sua volta in sequenze di processo e aree di attività (c.d. ADA). Le aree di attività, in particolare, contengono le descrizioni delle singole attività, individuando per ciascuna di esse i risultati attesi che «costituiscono uno dei criteri guida per l’identificazione del livello del Quadro nazionale delle qualificazioni e per la predisposizione delle prove di valutazione atte all’accertamento sostanziale del possesso delle competenze».  criteri guida per l’identificazione del livello.

Ove possibile l’Atlante del lavoro e delle qualificazioni dovrebbe correlare le attività lavorative così descritte con le qualificazioni contenute nella seconda sezione dell’Atlante: il Quadro Nazionale delle Qualifiche, che raccoglie e referenzia le qualificazioni nazionali con quelle dell’European Qualification Framework. In particolare, ciascuna qualificazione, secondo le guide, dovrebbe essere descritta in termini di competenze e a tal proposito sono definite le nozioni di competenza, conoscenza, abilità e autonomia e responsabilità.

Al fine di garantire la pertinenza e l’attualità dell’Atlante alle vicende del mercato del lavoro italiano, le Linee guida specificano inoltre che ogni anno, su richiesta di INAPP e ANPAL, si può procedere alla “manutenzione ordinaria” dei contenuti e delle qualificazioni e che in qualsiasi momento sono ammesse attività di “manutenzione straordinaria” quando si verifichino delle «modificazioni profonde degli assetti strutturali, metodologici e di sistema».

Gli enti titolari del servizio hanno in definitiva adesso strumenti e linee guida dettagliate su come rendere operativo il sistema nei rispettivi ambiti di competenza, che è opportuno qui richiamare: 1) il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in materia di individuazione e validazione e certificazione delle competenze riferite ai titoli di studio del sistema scolastico e universitario; 2) le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, in materia di individuazione e validazione e certificazione di competenze riferite a qualificazioni rilasciate nell’ambito delle rispettive competenze; 3) il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in materia di individuazione e validazione e certificazione di competenze riferite a qualificazioni delle professioni non organizzate in ordini o collegi, salvo quelle comunque afferenti alle autorità competenti di cui al successivo punto 4; 4) il Ministero dello sviluppo economico e le altre autorità competenti ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, in materia di individuazione e validazione e certificazione di competenze riferite a qualificazioni delle professioni regolamentate a norma del medesimo decreto.

L’elenco degli enti titolari che sono chiamati in causa nella concreta attuazione del sistema fa emergere la complessità insita nel tentativo – pure necessario – di creare un sistema unico per l’individuazione, la validazione e la certificazione delle competenze maturate in tutti i contesti.

A tal proposito si segnala come un nodo cruciale delle nuove linee guida sia il richiamo – in diversi punti – dell’esclusione dai servizi di individuazione, validazione e certificazione delle competenze delle qualificazioni per le professioni regolamentate. In questo modo si ribadisce nuovamente il sistema a sé stante e particolaristico che caratterizza il sistema di costruzione delle professioni regolamentate che per ragioni attributive e storiche è difficilmente applicabile a tutta quella schiera di “nuovi professionisti” che stanno acquisendo sempre più peso nel mercato del lavoro.

Infatti, sono le stesse linee guida a riconoscere la validità e l’estensione di quanto prefissato anche per le professioni non organizzate in ordini e collegi che secondo il presente documento riguardano «l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’articolo 2229 del codice civile, delle professioni sanitarie e relative attività tipiche o riservate per legge e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative» ( si vedano in proposito le considerazioni riportate in S. Negri, Il sistema dell’apprendistato e la sfida della regolazione delle “nuove professioni”, in Bollettino ADAPT n. 46/2020).

La certificazione delle competenze secondo le procedure del sistema pubblico, d’altra parte, come delineato ampiamente in L. Casano, Contributo all’analisi giuridica dei mercati transizionali del lavoro, Adapt University Press, 2020, non è il solo sistema di qualificazione esistente al fine di riconoscere gli apprendimenti e le competenze acquisite in contesti formali, informali e non formali. Invero, un sistema sempre più diffuso per il riconoscimento delle competenze in particolare per le professioni emergenti è quello delle certificazioni di conformità a standard tecnici UNI, mentre occorre ricordare come rimangano sempre sullo sfondo i sistemi di classificazione e inquadramento della contrattazione collettiva che spesso disciplinano gli stessi profili professionali e rispetto ai quali è stata da tempo segnalata la necessità di una integrazione con gli standard pubblici.

L’integrazione tra tali sistemi sarebbe auspicabile non soltanto per il gruppo di “nuovi professionisti” ma per tutti i lavoratori che come è ormai ampiamente noto non dispongono più delle classiche garanzie del posto a vita all’interno di un medesimo luogo di lavoro. L’implementazione di un sistema coordinato garantirebbe un riconoscimento delle competenze acquisite e una trasferibilità universale del proprio bagaglio professionale.

Permane anche dopo la pubblicazione delle nuove Linee guida la fragilità di un sistema che, almeno per il momento, resta inattuato e che paga (e rischia di continuare a pagare) il farraginoso impianto burocratico necessario per la sua implementazione. Come ampiamente segnalato in tempi non sospetti, il rischio è che l’intero sistema si riveli un «castello di carta» (M. Tiraboschi, Certificazione competenze: un castello di carta, in U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo (a cura di), Certificazione delle competenze. Prime riflessioni sul decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, ADAPT Labour studies, e-book series n. 6/2013, configurato sulla base di astratte declaratorie e retto su procedure macchinose e profondamente centralistiche. In questo senso l’esclusione delle parti sociali (e in particolare dei Fondi interprofessionali) sia nel processo di erogazione della formazione formale sia tra gli enti titolati a erogare servizi di individuazione, validazione e certificazione delle competenze pare un limite invalidante l’intero sistema.

Fonte: ADAPT

Motivo oggettivo e repêchage. L’evoluzione (incompiuta) della giurisprudenza

AdaptMotivo oggettivo e repêchage. L’evoluzione (incompiuta) della giurisprudenza di Federico Avanzi

Il contratto di lavoro subordinato rappresenta, ancora oggi, uno dei “teatri” prediletti dalla giurisprudenza per esibire, sovente in necessaria supplenza del legislatore, la propria incisività nonché, talvolta, “teleologica” creatività, in termini di diritto effettivo. In particolare, questo risulta evidente se si osserva il perpetuo quanto dinamico “abbraccio” esegetico della magistratura, alla normativa di riferimento in materia di licenziamenti individuali.

Invero, accanto a un, già di per sé, articolato quadro regolatorio di controllo sull’esercizio del potere di recesso, realizzato individuando, con l’art. 2119 c.c. e l’art. 3 L. n. 604 del 1966, presupposti giustificativi mediante una clausola generale (giusta causa) e una norma generale (giustificato motivo soggettivo e oggettivo) che delineano “fattispecie” ampie (così, C. Zoli, in WP CSDLE M. D’Antona n. 428-2020, Il puzzle dei licenziamenti ed il bilanciamento dei valori tra tecniche di controllo e strumenti di tutela, p. 3) a disciplina – rectius tutela – tripartita (art. 8 L. 604/1966, art. 18 L. 300/1970 e D.L.gs. 23/2015), la giurisprudenza non ha certo fatto mancare la propria opera, non solo di interpretazione, ma anche di “arricchimento” del dato testuale normativo.

Focalizzandosi sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il contemperamento – ponderatamente sbilanciato – tra i valori di tutela del posto di lavoro e della libertà d’impresa, ha prodotto, nel tempo, una vera e propria manipolazione, de facto, della originaria ragione giustificatrice di cui all’art. 3 ossia tale se inerente “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

Si rifletta, a esempio, di come la fattispecie sia stata indebitamente “riempita” sino al punto di ritenere precettivamente imposto che, nel dilemma tra una migliore gestione aziendale e il recesso da un singolo rapporto di lavoro, l’imprenditore potesse optare per la seconda soluzione, solo a condizione che si trovasse a fronteggiare sfavorevoli e non contingenti situazioni di crisi.

E se tale elemento, addizionale, di legittimità al recesso, può, oggi, anche sulla scorta delle limitazioni legislative sul “sindacato di merito” (art. 30, c. 1 L. n. 183/2010), sostanzialmente dirsi obliterato (Salvo eccezioni, Cass. n. 25201/2016 e successive), non altrettanto può affermarsi per altra conditio di assoluta matrice giurisprudenziale e da assumersi, alla stregua della precedente, quale perfetta espressione di “concorrenza” alla discrezionalità del legislatore.

Si intende riferirsi al c.d. obbligo di repêchage, secondo cui il datore di lavoro ha l’incombenza di dimostrare, con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento – e non solo (vedi infra) – anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici, la impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni differenti da quelle soppresse, giustificandosi il recesso solo come extrema ratio e potendo l’onere in questione, ricondursi ai generale principio della buona fede, il quale impone, a ciascun contraente, di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte (sul risalente orientamento Cass. n. 20436/2016 e Cass. n. 7755 del 1998).

Dunque, oltre l’effettività e non pretestuosità della soppressione del posto riferibile al lavoratore, quale conseguenza – e non causa – di ragioni organizzative ammesse per giurisprudenza costante (Cass. n. 13516/2016), il datore recedente deve provare, altresì, di non aver posizioni lavorative scoperte, poiché stabilmente occupate, oltreché, per un congruo periodo dopo il licenziamento, di non procedere a nuove assunzioni (Cass. n. 12101/2016), senza che gli sia consentito eccepire limiti territoriali nella “ricerca” e potendo esclusivamente addurre l’estremo di una, comunque, proficua (ri)utilizzabilità del prestatore nell’impresa, ad assetto organizzativo inalterato (Cass. n. 16141/2002).

Allegazione e prova – negativa – che non gravano sul lavoratore estromesso, nemmeno in termini cooperazione (Cass. n. 12101/2016), poiché spettanti al titolare del rapporto, il quale potrà anche fruire delle opportunità offertegli dalla “vicinanza” della prova, essendo lui il detentore delle scritture aziendali, es. Libro Unico del Lavoro e, peraltro, senza che possa reputarsi sufficiente, di per sé sola, ai fini dell’integrale adempimento, una estemporanea, se non addirittura fraudolenta, “proposta” di assegnazione alternativa, effettuata dal medesimo, in epoca precedente il recesso (sulla insufficienza della “proposta”, Cass. n. 9869/2017).

Incombenza di rilevo, anche osservando i “contenuti” delle mansioni vacanti da vagliare, assunto come l’indagine datoriale di “compatibilità” con il concreto contenuto professionale (Cass. n. 21579/2008) del lavoratore, c.d. equivalenza sostanziale, sembra, oggi, superata, ope legis, in favore di un concetto “dinamico” di professionalità (Trib. Milano n. 2137/2017), c.d. equivalenza formale (su questo concetto si rimanda a F. Avanzi, Diritto e tutela della professionalità. Riflessioni sull’art. 2103 c.c. e questioni di compatibilità con i principi costituzionali, in Bollettino ADAPT n. 39/2019) che per di più positivizza, “in verticale discendente” (c. da 2 a 5 art. 2103 c.c.), l’adempimento della ricollocazione, determinando, nei fatti, un sostanziale aggravamento, anche in ordine probatorio, dell’obbligo di repêchage (per un caso concreto, Trib. Torino n. 1676/2019).

Pertanto, anche se ciò non arriva a costituire “fatto” autonomo rispetto alle ragioni tecniche, organizzative e produttive determinanti la soppressione d’un dato posto di lavoro, tale da richiedere una specifica e indipendente contestazione da parte del lavoratore, il “ripescaggio” rappresenta, comunque, uno dei due aspetti del medesimo “fatto” estintivo – il giustificato motivo oggettivo – fra loro inscindibili, poiché l’uno, senza l’altro, inidoneo a rendere valido il recesso (Cass. n. 12101/2016).

Dunque, esegesi di assoluta rilevanza tecnico-giuridica, non solo perché attribuirgli i “gradi” di “elemento costitutivo” della fattispecie, significa, in sostanza, azzerare la discussione su chi incomba l’onere della prova, ma anche, e soprattutto, perché ciò determina notevoli riflessi in termini di protezione riconosciuta al lavoratore.

In particolare, per i lavoratori soggettati all’art. 18 legge 300 del 1970, una volta accertata l’ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti e, in particolare, perciò che qui rileva, per inottemperanza all’obbligo di repêchageil giudice di merito, ai fini dell’individuazione del regime sanzionatorio da applicare, dovrà procedere, salvo ipotesi di “eccessiva onerosità” per il datore, con la tutela reintegratoria attenuata (art. 18 c. 4), essendo che l’espressione lessicale utilizzata dal legislatore “manifesta insussistenza del fatto” (art. 18 c. 7), risulta sganciata da richiami diretti ed espliciti alle “ragioni” previste all’art. 3 L. n. 604 del 1966, dovendosi, dunque, ritenere il riferimento normativo effettuato alla “nozione complessiva” di giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 10435/2018).

Nondimeno una, a questo punto, così “grave” illegittimità potrà – dovrà? – pesare, probabilmente, anche nella definizione, quantitativa, degli altri sistemi di ristoro e dissuasione prettamente indennitari (art. 8 L. 604/1966, artt. 3 e 9 D.L.gs. 23/2015).

Certo, è bene ribadirlo, la magistratura dovrebbe riservare simili conseguenze, esclusivamente, qualora venga appurata una evidente e facilmente verificabile, sul piano della prova, assenza di “ripescaggio” ossia la sua “manifesta insussistenza” e non anche ai casi di mera “insufficienza probatoria” (Sulla distinzione fra “manifesta insussistenza” e “insufficienza” probatoria, Cass. n. 10435/2018 e n. 26460/2019).

Sembra poi doveroso notare come l’evoluzione interpretativa testé, tanto risalente, quanto laboriosa, risulta, comunque, parzialmente compiuta o, quantomeno, non definitiva, registrandosi anche di recente, pronunciamenti non perfettamente coincidenti al “pensiero” giurisdizionale, sistematico e di principio, sin qui, in sintesi estrema, richiamato.

Basti pensare, in questo senso, all’obbligo di motivazione (art. 2 legge 604/1966) che, secondo costante orientamento, non ricomprenderebbe affatto il repêchage.

Questo perché, secondo l’esegesi pretoria, il dovere di comunicare per iscritto i motivi del recesso, non riguarderebbe tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente l’indicazione della fattispecie nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa, mentre l’inutilizzabilità aliunde rappresenterebbe un elemento implicito da provare, direttamente, in giudizio (Da ultimo, Cass. n. 16795/2020).

Ora, salvo il particolarissimo caso del licenziamento, oggettivo, nel contratto di somministrazione, ove può sostenersi che, in sostanza, la mancata ricollocazione rappresenta anche la ragione organizzativa (F. Avanzi, in SINTESI, rassegna di giurisprudenza e dottrina di Febbraio 2020, Giustificato motivo oggettivo, repêchage e somministrazione. Analisi di un licenziamento individuale sui generis), se il repêchage, come già detto, risulta essere uno dei due aspetti del medesimo fatto estintivo ovvero del giustificato motivo oggettivo, non si comprende come possa dirsi legittima la sua omissione all’interno dell’atto di recesso che dovrebbe propriamente, ex lege, contenere “la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.

Anche tale questione, concludendo, pare tutt’altro che di “lana caprina” se riflettuta nell’ottica delle specifiche “sanzioni” per violazione del requisito di motivazione, previste, puntualmente, dal nostro ordinamento (art. 18 c. 6 L. n. 300/1970, art. 4 D.L.gs. n. 23/2015).

Federico Avanzi

Consulente del lavoro

Bollettino ADAPT 1 febbraio 2021, n. 4

Covid-19, ulteriore periodo di Cassa Integrazione e assegno ordinario

Covid-19, ulteriore periodo di Cassa Integrazione e assegno ordinario

La legge di bilancio 2021 detta nuove disposizioni sui trattamenti di integrazione salariale connessi all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

In particolare, è stato introdotto un ulteriore periodo di trattamenti di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO), Cassa Integrazione Guadagni in Deroga (CIGD), assegno ordinario (ASO) e Cassa Integrazione Speciale Operai Agricoli (CISOA).

Il periodo aggiuntivo può essere richiesto da tutti i datori di lavoro che hanno dovuto interrompere o ridurre l’attività produttiva per eventi riconducibili al Covid-19, a prescindere dal precedente utilizzo degli ammortizzatori sociali fino al 31 dicembre 2020.

È possibile richiedere la concessione della Cassa Integrazione e dell’assegno ordinario, per periodi decorrenti dal 1° gennaio 2021, per una durata massima di 12 settimane. I trattamenti di CIGO devono essere collocati nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 marzo 2021, quelli di assegno ordinario e CIGD tra il 1° gennaio e il 30 giugno 2021. Con il messaggio 29 gennaio 2021, n. 406, l’INPS fornisce le prime informazioni sulle novità normative e fornisce le istruzioni per la presentazione delle domande, rimandando a una prossima circolare tutti i dettagli.

Fonte: INPS